LA STORIA DEL GRANO “SENATORE CAPPELLI”

 

 

 Quando nel 1906 il  marchese Raffaele Cappelli, deputato del Regno d’Italia e grosso proprietario terriero della Capitanata, decise di adibire alla sperimentazione del grano uno dei suoi poderi, l’allora ministro dell’agricoltura Francesco Coccu Orto (governo Giolitti) gli fece il nome di Nazareno Strampelli. Quest’ultimo era un agronomo genetista, impegnato da anni nell’ibridazione delle varie specie di frumento secondo le teorie di Mendel.

Strampelli accettò senza esitazione la proposta del marchese.

Prima di trasferirsi in quello che era considerato il granaio d’Italia, lo scienziato aveva diretto con pochi fondi una cattedra ambulante a Rieti, dove aveva studiato le caratteristiche di un’apprezzata varietà di frumento locale, il Rieti, che ibridò con grani olandesi e giapponesi ottenendo una varietà più produttiva, perché resistente alle fitopatie che ne limitavano la resa e che chiamò Ardito

Per i suoi esperimenti a Foggia il marchese Cappelli gli concesse un appezzamento di terreno piuttosto distante dal resto degli altri poderi e uno sgabello, ma ciò non placò affatto il suo zelo e la sua dedizione.

Il regime fascista mutò la situazione: Mussolini in persona fece visita a Strampelli per valutare la portata delle sue scoperte. All’epoca l’Italia importava buona parte del grano dagli Stati Uniti e dalla Russia.

Forte dell’incrollabile certezza dello scienziato, il Duce avviò la battaglia del grano che in meno di sei anni, grazie alle “sementi elette” di Strampelli, in primis l’Ardito, fu vinta e rese autosufficiente la Nazione.

Il regime omaggiò Strampelli nominandolo senatore, ma il genetista con una lettera a Mussolini declinò l’offerta e si dichiarò non interessato alla politica.

La carica, nonostante fosse stata respinta, fu ugualmente formalizzata, ma Strampelli continuò a dedicarsi assiduamente alle sue ricerche.

In poco tempo le varietà da lui sviluppate si diffusero in tutto il mondo, giungendo persino nella Cina di Mao Tse-Tung. Furono una sessantina le varietà di grano di Strampelli e ad ogni varietà dette un nome diverso: Carlotta, in onore della moglie che fu anche la sua fedele assistente, Mendel, Dante e ancora Alalà, Apulia, Stamura …..

Strampelli non bevettò mai il frutto del suo lavoro che peraltro lo avrebbe reso molto ricco e rifiutò persino i privilegi derivati dagli alti meriti dello Stato. Neanche dimenticò il marchese Cappelli, che anni prima gli aveva affidato un campo e che ora da senatore (1919 – governo Nitti) avviava la riforma agraria nelle Puglie e nel Sud Italia per migliorare le condizioni dei contadini.

A lui volle dedicare il grano Senatore Cappelli creato nel 1915, che divenne in quel tempo uno tra i grani duri più diffusi.

Al giorno di oggi questo grano è stato rivalutato per le sue caratteristiche organolettiche e di qualità e si può ritenere una specie rara e pregiata anche se di scarsa resa rispetto ai moderni grani sviluppati dalle multinazionali del seme.

Benché Strampelli fosse consapevole del valore dei suoi grani, non si dilungò mai in pubblicazioni prolisse e autocelebrative, anzi a tal proposito affermava:

L’uomo che allarga ogni giorno il suo dominio su tutto ciò che lo circonda non è padrone del tempo, il grande galantuomo che tutto mette a posto. E il tempo a me è mancato di fare tante cose, che pure avrei voluto veder compiute. Le mie pubblicazioni, quelle a cui tengo veramente, sono i miei grani. Non conta se essi non portano il mio nome; ma ad essi è e resta affidata la modesta opera mia.

Il grano Senatore Cappelli è coltivato a Sezze nell’azienda di Campagna Amica “Tenuta Le Pantanelle” in via Archi San Lidano, dove è possibile acquistare la farina. 

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 IL FIUME UFENTE: L’ORO BLU DI SEZZE

 

                                 L?UFENTE presso Ponte Ferraioli (migliara 47) - Agosto 2017

 Due grandi gruppi di sorgenti contribuirono a formare la Palude Pontina, quelle di Ninfa   ai piedi di Sermoneta e quelle delle “Canalelle”, Mole Muti e Scafa Rappini, sotto Sezze.

Queste ultime, in particolare, hanno una portata quasi doppia delle sorgenti di Sermoneta, tanto da comprendere i pozzi dell’importante acquedotto delle Sardellane, che rifornisce di acqua potabile buona parte della provincia di Latina, oltre ad originare l’antichissimo Ufente.

La storia di questo fiume si perde nella notte dei tempi, viene citato da Virgilio nell’Eneide, dove incarna uno dei nemici che contrastano la mitica figura di Enea, sbarcato nel Lazio a seguito della distruzione di Troia.

E come un vero guerriero, l’Ufente sfida ancora oggi la siccità, la più lunga che l’uomo ricordi, senza mai abbassare il livello di guardia, e come i bufali che un tempo ne mondavano il letto dalle erbe palustri, mostra ancora quella forza e possenza che gli valsero nell’antichità il composito appellativo di Bufente.

Le sue acque, che da sole basterebbero ad irrigare i campi dell’intero Agro Pontino, rappresentano un patrimonio di un valore inestimabile, un grosso regalo che madre Natura ha fatto al nostro territorio, l’oro blu  per fronteggiare i cambiamenti climatici e la siccità che inevitabilmente ci attenderà anche nei prossimi anni.

Secondo i geologi, le sorgenti dell’Ufente, chiamate Le Canalelle,  per i numerosi canalicoli e polle d’acqua, sono alimentate da fiumi sotterranei, provenienti dalle alte cime dell’Abruzzo.

All’Ufente confluisce, nei pressi delle sorgenti, il torrente Brivolco, che raccoglie le acque meteoriche della Valle della Cunnula,  situata a nord - ovest della collina di Sezze.

Il fiume, attraversa con il suo corso parte dei comuni di Sezze, Priverno e  Pontinia e si unisce  in località Ponte Maggiore  presso Terracina al fiume Amaseno e al canale Linea Pio VI, dando vita al Portatore.

                                              L'ARNALO DEI BUFALI (Foto di Ignazio Romano)

Lo storico ed accademico setino, dottor di legge Giuseppe Ciammarucone, così scrive nel 1641, nella “Descrizione della Citta di Sezza”:
“Nasce l’Ufente in piè della montagna setina con letto navigabile nell’istesso fonte; e lentamente scorrendo nel mar Tirreno si nasconde; celebre ne ’tempi nostri per le grosse pesche di spigole, e di cefali, che in quello si fanno con reti, e con altri ordegni piscatorii, venendo prima intorbidare l’acque con grosso branco di bufali. Tali pesche si fanno per l’ordinario in ogni tempo dell’anno, eccetto che nel fondo dell’invernata, ma particolarmente nella settimana santa se ne fa una solennissima dalli Signori Governatori di Campagna per regalare gl’Eminentissimi Signori Nipoti di Papi;…” 

Nella vicina Priverno, che con Sezze ha sempre avuto una rivalità secolare, il nostro paese veniva identificato con“gliò Bufente” come testimoniano alcune storielle in voga sino a qualche decennio fa tra “la Regina Camilla e gliò Bufente”, inventate dai pipernesi e dai sezzesi per burlarsi a vicenda.  Priverno è nota per le sue origini volsche e Camilla, figura immaginaria secondo Ciammarucone ed altri autori, regina di Volsci, figlia di re Metabo, morì per mano di Arunte combattendo con i suoi guerrieri al fianco dell’alleato Turno contro Enea, dalla cui progénie fu fondata Roma. (Eneide di Virgilio canto VII vv. 803 -817 e canto XI vv. 498 – 915) 

Nella sua opera, Giuseppe Ciammarucone,  in riferimento ad un passo di Tito Livio, ci parla anche dell’antichissima tribù che abitò le rive del fiume:
“Da questo Ufente venne denominata la Tribù Ufentina, che insieme con l’altre votava nel Senato Romano; di cui ancor vive la memoria in un marmo intagliato dell’antica Fregelle; hora Ponte Corùo, di lui fece menzione Livio nel libro IX della prima Decha con queste parole: Eo anno dua addite Tribus Ufentina e Falerina.”

Della tribù conosciamo molto poco, sappiamo da Livio che nel 318 a.C. faceva parte con Setia  della Lega Latina e che partecipava con propri rappresentanti alle sedute del Senato Romano. Da ciò possiamo arguire che in virtù delle sue alleanze, la tribù Ufentina dovette costituire  un argine alla potenza dei volsci privernati,  oltre il quale avrebbero trovato lo scontro con Roma e le sue colonie.

La tribù, un popolo di agricoltori e pescatori, aveva trovato presso le sorgenti dell’Ufente il luogo ideale in cui  prosperare, specie dalle Mole Muti  alla sorgente della Scafa Rappini  e dall’Arnalo dei Bufali  (dove fu rinvenuto il dipinto rupestre dell’uomo a phi) fino a Ponte Ferraioli , sulla Migliara 47.

Inoltre il fiume era navigabile e pescoso tutto l’anno e i terreni circostanti potevano essere facilmente irrigati a mezzo di una  rete di canalicoli, ancora oggi esistenti, che hanno dato alla contrada il nome di Canalelle

Prima del tracciato della nuova statale 156, qui si svolgeva un’agricoltura di eccellenza e di primizie, di cui apprezzatissimi erano i fichi,  in quanto  il territorio, per le sue peculiarità pedoclimatiche,  possedeva e possiede ancora tutte le caratteristiche di una serra naturale.

Le grotte carsiche che ancora oggi si vedono, tra cui il sito archeologico dell’Arnalo dei Bufali , furono probabilmente  usate dalla tribù Ufentina come ricovero per gli animali o anche per abitazioni, come pure la villa sul colle, tra i pascoli della Società Bovaria, i cui resti sono oggi genericamente chiamati “villa romana”.

Osservando i ruderi e il sito di questa villa, posta ad una quota di circa 70 metri di altitudine ad est del lago delle Mole Muti,  si desume che dovette essere piuttosto ampia, costruita su più livelli e servita da una superba cascata, di cui ancora oggi se ne ravvisano i segni sulla roccia.

              RESTI DELLA VILLA UFENTINA - La villa era probabilmente disposta su due o tre livelli

 

RICORDI DI UN GIORNO ALLE CANALELLE, ALLE SORGENTI DELL’UFENTE, NEGLI ANNI TRENTA

da un racconto di Alessandro Di Prospero.     1 dicembre 2013

“Ricordo Lidanuccio "Bersagliero" ora anziano come me e spero ancora in vita. Una volta con questo mio amico scendemmo fino alle "CANALELLE" dove il padre, afflitto da una grave forma di artrosi per l'estenuante lavoro con la zappa, era rimasto anchilosato a schiena ricurva.

Con il suo lavoro indescrivibile era riuscito a costruirsi (Incredibile...!) una piccola isola di terra (Penso circa un migliaio di mq.) ove, meraviglia delle meraviglie, crescevano ortaggi rigogliosi a non finire. Ebbene quel giorno quel povero padre non aveva nemmeno il pane per sè e nemmeno un pezzo di pizza "roscia" cotta in casa la sera prima.

Notai il suo dispiacere velato. Ma io e Lidanuccio ci accontentammo di un bel pomodoro a testa e un pò di sedano col sale. Per bere ? L'acqua che scorreva ai lati dell' "isola". Ancora un ricordo con questo Lidanuccio detto Bersagliero come il padre: andammo a caccia di quaglie, di notte, con un lume a carburo ed una campanella. Esito completamente negativo e ci accontentammo di mangiare dei lumaconi trovati fra le erbacce e fatti alla brace con un focarello.

 

Premi ricevuti da questo mio comportamento ed azioni ? Botte da mio padre Vincenzo e da mia madre Geltrude Del Duca, che mi avevano ricercato per un giorno ed una notte, nonché e non raramente dai miei fratelli maggiori, Lidano e Filiberto.”

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 La Villa di Mecenate e il Palazzo di Augusto

  di Vittorio Del Duca

             

                                               Il PALAZZO DI AUGUSTO (comunemente chiamate Le Grotte)

 

 Non molto distante dal punto in cui la via che conduce al paese incrocia l’antica via setina (sotto il primo rampante) esistevano, secondo il Corradini ( De Primis Antiqui Latii Populis… pag. 157), tracce di antichi fabbricati con una volta non molto deteriorata, ritenuta la villa di Mecenate.Tale villa, secondo il Corradini, raggiungeva nella sua estensione le sorgenti della Fontana dell’Acquaviva, dove sarebbero stati rinvenuti resti di mosaico, di condotte per l’acqua e di casse mortuarie a mattoni. Ancora oggi intorno a queste antiche sorgenti si notano rottami, selci, cocci di anfore e resti di mattoni discretamente estesi, che io stesso ho potuto notare per essere ricompresi su parte della mia azienda agricola.

Non è dello stesso parere il Tufo che nel 1901scriveva (Storia antica di Sezze, pag. 198 -199) “Sarebbe stata davvero desiderabile nel setino una villa di Mecenate, il proverbiale protettore dei letterati, l’alter ego di Augusto, ma purtroppo bisogna rinunciare a questo desiderio poichè non è stato detto su quali prove si fondò questa antica opinione e chissá che non sia sorta così: sapendo che una villa di Mecenate era nel Pontino, che le ville di costui di solito erano limitrofe a quelle dell’imperatore, si collocò nell’agro setino e nella parte descritta, una villa di Mecenate che per i vicini avanzi forse furono sempre ritenuti della villa di Augusto” (ossia le Grotte).

Villa Augusto 

 Continua il Tufo ( op. cit. pag. 200): “ Poco al di lá del Pantanello ai piedi del monte Trevi, esistono avanzi di parecchie grotte ampie e con volta massiccia. Anche qui ricorre il comune opus reticulatum degli altri luoghi del nostro territorio e soprattutto nei ruderi tra la linea ferroviaria (ex Tuppitto) e le grotte sottostanti ad altre, su cui si ammira un bel pavimento a mosaico (oggi distrutto dalle coltivazioni). Sarebbero queste le famose Terme di Augusto e l’opinione pare si fondi da queste ragioni: le rovine sono talmente importanti da far credere all’esistenza di un ampio e splendido edificio, possibilmente degno di un imperatore; Augusto prediligeva il vino setino come quello che gli faceva bene allo stomaco (Plinio) e perciò è credibile che non gli sarebbe dispiaciuta una villa nel nostro territorio; inoltre la pianura che si estende sotto le terme si denomina Palazzo, probabilmente in ricordo della casa dell’imperatore, alla quale soltanto si dava il nome di Palatium.

Prima veramente il Palatium era il Palatino, con la parte alta della città ivi costruita da Romolo, ma dopo che Augusto e i suoi successori trasportarono su quel colle il loro domicilio e la corte, allora soltanto fu anche il Palazzo imperiale, ma non altro.

Alle ragioni precedenti se ne possono contrapporre delle altre: il ricco edificio sarebbe potuto essere tanto di Augusto quanto di un altro imperatore,  oppure di qualche patrizio romano assai dovizioso, all’imperatore sarebbe potuto piacere il vino setino, senza curarsi di avere una villa nel nostro territorio, dalla quale ricavarlo; infine ci si potrebbe domandare se dopo l’estensione del vocabolo suddetto ad ogni edificio grande e sontuoso senza essere imperiale, il popolo vedendo importanti rovine e credendole di un palazzo, non abbia dato alla contrada questo stesso nome, il che è molto probabile, poiché il volgo non si pone certo a far la storia dei vocaboli, risalendo fino ai significati originari di essi.”

 

 

 

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 PASSEGGIATA SUL FIUME UFENTE TRA COLORI E SAPORI DI UN'EPOCA LONTANA

DomENICA 1 dicembre 2013: ILGRUPPO “In difesa dei Beni Archeologici” sempre alla scoperta di nuovi tesori offerti da un territorio generoso, propone a tutti gli amici una nuova esperienzaTRA NUOVI PERCORSI E VECCHIE TRADIZIONI, LA STORIA E LA CULTURA ABITANO ANCORA QUI, BASTA RISCOPRIRLE.  SCOPRITELE CON NOI, IL GRUPPO E’ APERTO A TUTTI.

 Per chi lo desidera alla fine dell'escursione è possibile pranzare nel ristorante Da Angeluccio previa prenotazione entro il 25 novembre, telefonando al  numero 3381503955 oppure comunicandolo all'indirizzo di posta elettronica  Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. Gli antichi sapori ti conquisteranno per sempre. Ulteriori informazioni su: http://www.setino.it/studio-03q.htm

L'UFENTE E SULLO SFONDO L'ARNALO DEI BUFALI               

IL FIUME UFENTE  E SULLO SFONDO L'ARNALO DEI BUFALI  DOVE FU RINVENUTO  IL DIPINTO RUPESTRE PREISTORICO  DELL' UOMO A PHI       

 

RICORDI DI UN GIORNO ALLE CANALELLE, ALLE SORGENTI DELL’UFENTE

dal racconto di Alessandro Di Prospero
“Ricordo Lidanuccio "Bersagliero" ora anziano come me e spero ancora in vita. Una volta con questo mio amico scendemmo fino alle "CANALELLE" dove il padre, afflitto da una grave forma di artrosi e per l'estenuante lavoro con la zappa, era rimasto anchilosato a schiena ricurva. Con il suo lavoro indescrivibile era riuscito a costruirsi (Incredibile...!) una piccola isola di terra (Penso circa un migliaio di mq.) ove, meraviglia delle meraviglie, crescevano ortaggi rigogliosi a non finire. Ebbene quel giorno quel povero padre non aveva nemmeno il pane per sè e nemmeno un pezzo di pizza "roscia" cotta in casa la sera prima. Notai il suo dispiacere velato. Ma io e Lidanuccio ci accontentammo di un bel pomodoro a testa e un pò di sedano col sale. Per bere ? L'acqua che scorreva ai lati dell' "isola". Ancora un ricordo con questo Lidanuccio detto Bersagliero come il padre: andammo a caccia di quaglie, di notte, con un lume a carburo ed una campanella. Esito completamente negativo e ci accontentammo di mangiare dei lumaconi trovati fra le erbacce e fatti alla brace con un focarello. Premi ricevuti da questo mio comportamento ed azioni ? Botte da mio Padre e da mia Madre che mi avevano ricercato per un giorno ed una notte, nonché e non raramentedai miei fratelli maggiori, Lidano e Filiberto.”

 

Alessandro Di Prospero  è stato  il primo radioamatore di Sezze, passione che ha coltivato in una vita trascorsa alla Guardia di Finanza e che tuttora coltiva con competenza e profesionalità. Tra le sue imprese i soccorsi radio nello tsunami del Giappone, ed oggi segue il Voyager 1 uscito dal sistema solare. Curioso ed interessante è come si racconta  nel suo blog di elettronica: 
“Nato a Sezze Romano (LT) il 4.11.1928, all'età di circa 14 anni (Tempo di guerra) iniziava a dedicarsi con passione allo studio e sperimentazione della radiotecnica in genere prima rivolgendo la sua attenzione alle apparecchiature più semplici e a quelle militari trovate in trincee abbandonate, su carri armati od automezzi distrutti nonché su aerei, e poi alle intercettazioni varie compreso anche Radio Londra. Ancora minorenne, a causa di questa passione o inclinazione, veniva "osservato" ( Periodo post Fascista ) dai Carabinieri di Sezze per le sue attrezzature tecniche che, se pur primordiali, per loro erano molto "particolari" e quasi "misteriose".

Già le sue antenne semplicemente filari sul tetto di casa, costituivano novità, curiosità e interrogativi non solo per le Forze di Polizia ma per tutti. Al suo paese, peraltro agricolo e popoloso, le radio riceventi dei programmi EIAR si potevano contare con le dita di una mano. I suoi genitori ed in particolare sua madre N.D. Geltrude DEL DUCA, impaurita dalle continue visite della Polizia e di altri "strani signori....di Roma", contrastava questo suo figlio affinché cessasse di "giocare" con quelle strane cose, anche perchè senza rendimento economico ma soltanto costose e dannose per le numerose tegole rotte sul tetto. Ancor più pericolose perchè potevano costituire intralcio ai suoi "veri" studi letterari classici peraltro impostigli.” Sandro, come tutti i ragazzi della sua età, aveva  tanti amici con i quali amava fare delle lunghe passeggiate fuori porta ed uno di questi era appunto Lidanuccio “Bersagliero”.

 

 

 

                                                                            Le "cannèle" d'acqua                                               

 

 

            "Schiavùgni" in primo piano (con fiori bianchi) sullo sfondo le "cannèle"

 

Le “cannèle” d’acqua come pure “i schiavùgni” erano ricercatissimi in passato. Dalle prime si raccoglievano i germogli teneri che venivano “aggiustati ad insalata”, mentre i secondi si cucinavano " usa broccoletti”. Ancora oggi c'è chi ne va alla ricerca. Sono piante acquatiche commestibili e vegetano un po’ dappertutto nelle acque basse e lungo i bordi dei torrenti dell’Agro Pontino. Trovano il loro habitat naturale nei numerosi canalicoli che alimentano il fiume Ufente e che hanno dato il nome di “Canalelle” a tutta la località.Tra i vari canalicoli  si trovano delle “ isole”, ovvero piccoli appezzamenti coltivati, che duemila anni fa ospitarono la “ Tribus Ofentina” un popolo di pescatori, agricoltori e pastori.

 

             Il fiume Ufente lungo il ristorante "da Angeluccio" a Ponte Ferraioli

 

        Casa cantoniera del Consorzio di Bonifica sull'Ufente a Ponte Ferraioli

 

  Sulle tracce della tribù Ufentina

Giovanni Ciammarucone nel 1641 in “ Descrizione della Citta di Sezza” così parlava dell’ Ufente, il mitico fiume che origina dalle fresche sorgenti poste ai piedi di Sezze, meglio conosciute con il nome di “Mole Muti”, “ Sardellane” e “Scafa Rappini” (la scafa era una barca, oggi in disuso) :
“Nasce l’Ufente in piè della montagna setina con letto navigabile nell’istesso fonte; e lentamente scorrendo nel mar Tirreno si nasconde; celebre ne ’tempi nostri per le grosse pesche di spigole, e di cefali, che in quello si fanno con reti, e con altri ordegni piscatorii, venendo prima intorbidare l’acque con grosso branco di bufali. Tali pesche si fanno per l’ordinario in ogni tempo dell’anno, eccetto che nel fondo dell’invernata, ma particolarmente nella settimana santa se ne fa una solennissima dalli Signori Governatori di Campagna per regalare gl’Eminentissimi Signori Nipoti di Papi;…” 

   Ruderi di una villa romana, appartenuta probabilmente alla "Tribus Ofentina"

 

 Il fiume ha origini antichissime che si perdono nella notte dei tempi; viene cantato nell’Eneide di Virgilio ed incarna uno dei nemici che contrastano la mitica figura di Enea, appena sbarcato nel Lazio a seguito della distruzione della sua città, Troia. 

Nella vicina Priverno, che con Sezze ha sempre avuto una rivalità secolare, il nostro paese veniva identificato con “gliò Bufente” come testimoniano alcune storielle ancora in voga sino a qualche decennio fa tra “la Regina Camilla e gliò Bufente” inventate dai pipernesi per denigrare Sezze. Il nostro paese rendeva pan per focaccia con un'altra serie di racconti tra “I Bufento e la Camilla” quasi sempre imbastiti di volgarità, al pari di quelli di Priverno. Priverno è nota per le sue origini volsche, e Camilla ( figura immaginaria, secondo Ciammarucone ed altri) regina di Volsci e figlia di re Metabo, morì per mano di Arunte combattendo con i suoi guerrieri al fianco dell’alleato Turno contro Enea, dalla cui progénie verrà poi fondata Roma. (Eneide di Virgilio canto VII vv. 803 -817 e canto XI vv. 498 – 915.) 
Se però i pipernesi chiamavano Sezze “gliò Bufente”, storpiando il nome del fiume Ufente, una ragione doveva pure esserci e questa la possiamo trovare ancora una volta nel libro del Ciammarucone, che si rifà ad un passo di Tito Livio: “Da questo Ufente venne denominata la Tribù Ufentina, che insieme con l’altre votava nel Senato Romano; di cui ancor vive la memoria in un marmo intagliato dell’antica Fregelle; hora Ponte Corùo, di lui fece menzione Livio nel libro IX della prima Decha con queste parole: Eo anno dua addite Tribus Ufentina e Falerina..” Conosciamo veramente molto poco di questa tribù; possiamo solo dedurre da Tito Livio che si sviluppò lungo le rive dell’Ufente e che nel 318 a.C. faceva parte della Lega Latina e partecipava con rappresentanti alle sedute del Senato Romano.

 MURA DELLA VILLA ROMANA O DELLA TRIBUS OFENTINA, SULLA COLLINA PROSPICIENTE LA SCAFA RAPPINI

 Il nome “gliò Bufente” affibbiato a Sezze, potrebbe dunque trovare una giustificazione dal fatto che la tribù Ufentina o Ofentina , che abitò le rive dell’Ufente, abbia trovato una sistemazione proprio nelle rive sotto Sezze e che i privernati idealizzarono con tale nomignolo tutta la zona, ivi compresa la nostra città, che peraltro in tutti i testi antichi non figura mai con tale nomignolo ma sempre con il suo vero nome. 

Del resto, la tribù Ufentina, non avrebbe mai potuto trovare luogo migliore delle sorgenti dell’Ufente, soprattutto in quel tratto che va dalle Mole Muti (dal nome dell’antico proprietario) alla sorgente della Scafa Rappini, e dall’Arnalo dei Bufali (dove fu ritrovato il dipinto rupestre dell’uomo a phi), fino a Ponte Ferraioli. Chi conosce questi luoghi sa che sarebbero stati ideali ad ospitare una tribù di pescatori e di agricoltori quale doveva essere l’Ufentina, non solo per le numerose sorgenti e polle d’acqua che fanno invidia a Ninfa, ma anche perchè l’Ufente era navigabile e pescoso, ed i terreni circostanti potevano essere facilmente irrigati da una fitta rete di canalicoli, in cui ancora oggi scorrono le acque sorgive, e che hanno dato a tutta la contrada la denominazione di “Canalelle”. 
Se così fù, le numerose grotte carsiche che si vedono nel monte dirimpetto le sorgenti del fiume, e ai cui piedi passava la ferrovia di “Tuppitto” ed ora la Roma – Napoli, avrebbero potuto essere abitate dalla tribù Ufentina, cosi come la villa situata tra i pascoli della Società Bovaria, i cui resti oggi sono comunemente chiamati “villa romana”. Osservando i ruderi e il sito di questa villa, posta ad una quota di circa 70 metri di altitudine, si desume che dovette essere piùttosto ampia, costruita su più livelli e servita da una copiosa sorgente d’acqua che scaturiva dalle rocce, e di cui ancora oggi se ne ravvisano i segni.
Quanto sarebbe bella una passeggiata in battello sull’Ufente!

 

VITIS SETINA maritata all'olmo sulle rive dell'Ufente alle Canalelle- Da Plinio nelle Storie Naturali: "caecubae vites in pomptinae paludes madent.."

 

 La leggenda del principe Ufente e della regina Camilla

Questa è una di quelle antichissime storielle che si perdono nelle notti dei tempi, che ci sono state tramandate dai nostri nonni, che le raccontavano nelle lunghe serate d’inverno accanto al camino, in famiglia o con gli amici. Presi come siamo da uno stile di vita diverso, e con la tecnologia che ha rivoluzionato il modo di comunicare e di rapportarsi nella società, rischiamo di perderne completamente la memoria. 

Per questo, grazie alla traccia suggerita dalla nostra amica Filomena Danieli, una miniera di informazioni su storia, cultura e tradizioni setine, ho pensato di ricostruire questa antica leggenda che, in chiave mitologica , spiega come ebbero inizio le diatribe e gli eterni scontri tra sezzesi e pipernesi. Scontri talmente aspri che fecero dire a Teodoro Valle in “ Dialogo tra Camilla Privernate Regina de'Volsci e Sezze colonia antica de romani ” che Setia deriverebbe il suo nome non dalle setole del leone di Ercole (Nemeo) ma dai peli di porco, gli unici che in latino, secondo Valle, si chiamerebbero “setis” e che quindi sarebbe stato più appropriato chiamarla “Sozza” anziché “Sezza”. Ciò in risposta al nostro Ciammarucone, che nella “Descrittione della città di Sezza colonia latina di Romani” 1641, aveva affermato che la leggendaria Regina Camilla non era mai esistita e che la volsca Priverno era troppo piccola per essere stata un regno.Un mito a cui evidentemente i privernati non erano disposti a rinunciare.
Camilla,la leggendaria regina privernate dei Volsci cantata nell’Eneide di Virgilio, era figlia di re Metabo e della regina Casmilla. Si dice che il padre non fosse ben visto dai suoi sudditi e che per questo gli si ribellarono contro ed invasero la reggia (come sono cambiati i tempi !). Ci furono scontri, tafferugli e molti perirono, ma re Metabo riuscì a fuggire, prese in braccio la piccola Camilla di soli pochi mesi e cercò scampo nella foresta, sotto una pioggia torrenziale. Dopo avere a lungo camminato tra pozzanghere e fango, inseguito da uomini armati, giunse al fiume Amaseno, prossimo allo straripamento e con le acque intorbidite dalla troppa pioggia caduta in quei giorni. Metabo si rese conto che era troppo pericoloso attraversare il fiume a nuoto con la bambina tra le braccia, e che oltretutto bisognava fare presto perché incalzato dagli inseguitori. 
Ebbe così una idea fulminea: prese una grossa scorza di sughero dal tronco di un albero, vi pose la piccola Camilla e l’avvolse in un telo, legò il tutto alla sua lancia e con grande impeto la scagliò dall’ altra parte del fiume, dopo averla affidata e consacrata alla dea Diana con preghiere. La dea accolse le suppliche del povero Metabo e pose la piccola sotto la sua protezione, fin quando il padre non la raggiunse a nuoto sfidando la corrente del fiume. Camilla crebbe così nella foresta, nutrendosi di latte di pecora e di radici, e vestendosi con pelli di tigre; divenne sacerdotessa di Diana ed insieme ad alcune ancelle imparò a combattere e a cavalcare, diventando una vera guerriera, una sorta di amazzone. 
Camilla però aveva in animo un solo desiderio, quello di vendicare il padre e di riconquistare il regno della sua Priverno. Si narra che insieme alle ancelle cavalcasse più veloce del vento e che i loro cavalli erano capaci di attraversare sterminati campi di grano senza far cadere una sola spiga a terra. Dopo diversi anni,finalmente riesce a riconquistare il regno paterno e viene proclamata regina dei Volsci. La regina Camilla, oltre che valorosa, era anche una donna bellissima e numerosi principi l’avrebbero voluta come sposa. Tra i suoi pretendenti c’era Ufente, principe della “ Tribus Ufentina” alle sorgenti dell’Ufente, chiamato “Bufento” dalla tradizione popolare, un uomo forte e bello ma soprattutto innamoratissimo di Camilla. 
Costei però non era una donna come tutte le altre, perché il padre l’aveva consacrata alla dea Diana, e lei stessa da adolescente ne era diventata sacerdotessa. Il suo cuore quindi apparteneva a Diana come pure la sua verginità. Non potendo essere corrisposto da Camilla, Ufente si rivolse agli dei, perché lo aiutassero a conquistare il suo cuore. Gli dei erano un po’ come i nostri ministri e Giove, padre di tutti gli dei, era come il Presidente del Consiglio. Ognuno nell’ Olimpo aveva il suo “ministero”, ma tutti insieme formavano una maggioranza più o meno coesa (proprio come oggi), per questo gli dei non volendo dispiacere a Diana, protettrice di Camilla, consigliarono il principe di dimenticarla e di cercarsi come sposa un'altra donna. Ufente era però molto ostinato oltre che innamorato, e come sempre accade in amore non poteva immaginare la sua vita senza Camilla, né i suoi occhi discernevano altra donna che potesse reggere al confronto. Decise così di sfidare gli dei, trovando ogni giorno un nuovo stratagemma per incontrare la regina e per tentare di conquistarne il cuore. 

Camilla, anche se diversa dalle altre, era pur sempre una donna, ed anche molto tentata dall’amore e dalla perseveranza del principe, ciononostante invocò Diana di darle la forza ed il coraggio di resistergli. Diana, che ben comprendeva le ragioni della sua “protetta” per aver anche lei fatto voto di castità in seguito alle profferte del dio Amore, trasformò il principe Ufente in fiume. Ma anche da fiume, il principe non smise di amare e di desiderare la bella Camilla, spostò pian piano il suo corso verso la reggia per esserle più vicino, e come da uomo ebbe cura della sua persona, così da fiume volle che le sue acque fossero sempre fresche e limpide e ordinò agli uomini della sua tribù di curare le rive in modo che restassero sempre verdi e profumate da fiori, insomma una sorta di eden. 
Camilla, in un caldo giorno d’estate, attratta da questo eden, decise di bagnarsi in compagnia delle sue ancelle, e legato il cavallo ai rami di un albero si denudò delle vesti e si tuffò. Ad Ufente non parve vero che Camilla venisse spontaneamente ad abbracciarlo nel proprio letto e rispose carezzandola teneramente con le sue acque limpide, in un turbine di sensazioni prima mai conosciute. Camilla rimase incantata da tanta dolcezza, ed Ufente che non aveva alcuna intenzione di resistere al suo fascino continuò nel suo gioco con tanta passione, che la regina non seppe opporre resistenza. Ufente visse così il suo sogno d’amore, ma non durò a lungo perché il desiderio di palesarsi a Camilla per chi effettivamente era, fu troppo forte. La regina sentendosi tradita, odio' lui e tutti gli Ufentini. Da qui' l'eterna diatriba e gli scontri tra Sezzesi e Privernati.

 

PER ULTERIORI INFORNAZIONI SULLA PASSEGGIATA: http://www.setino.it/studio-03q.htm

 

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MONTE TREVI, IL  CASTELLO E LA SEDIA DEL PAPA

1) - Monte Trevi ed il suo castello

Monte Trevi è situato ad est della collina di Sezze ed è alto 505 metri. Alle sue pendici, dalla parte verso Priverno corre l’antico “vallum”, una sorta di fortificazione naturale che separava il territorio dei Volsci da quello dei Latini. Di questo monte ce ne dà notizia Dionisio già nel 40 a.C.  quando pone alle pendici che guardano la contrada dei Colli di Suso l’antica città di Apiole, una delle “viginti trium urbium”  citate da Plinio nella Naturalis Historia (libro III capo V). Questa città fu assalita e presa da Tarquinio Prisco e malgrado l’eroica resistenza degli assediati, le mura furono rase al suolo, gli abitanti in gran parte uccisi  e  altri venduti  come schiavi (V. Tufo – Storia antica di Sezze – pag 175)- (P.M. Corradini – Vetus Latium ..lib II, caput IX - pag 87)

Sulla sommità del monte fu costruito in epoca imprecisata un castello, che per la sua ubicazione costituiva una roccaforte naturale e strategica , perché oltre a sovrastare la città di Sezze e la conca di Suso, dominava l’antica via consolare pedemontana volsca,  l’unica che conduceva  a Priverno e Terracina quando le acque della palude invadevano l’Appia. Era il classico castello feudale: accanto  all’abitazione del signore vi erano quelle dei sudditi, i granai, le cisterne per l’acqua e persino un monastero delle Clarisse di San Francesco, istituito da Clemente V  con  bolla del 1313 inviata da Avignone.                         

Le prime notizie certe di questo castello risalgono al 1205, quando papa Innocenzo III lo tolse a Sezze per concederlo in feudo ai Conti di Ceccano, ma già dopo pochi anni, nel 1248, sappiamo da una lettera di Innocenzo IV  indirizzata a tutti i fedeli di Campagna e Marittima, che i Setini assalirono e distrussero il castello di Trevi  facendo prigionieri i figli di Guido di TreviLa distruzione del castello  non fu  però definitiva perché lo ritroviamo successivamente come proprietà di un ramo della nobile famiglia dei Pagano, che assunse il cognome “De Trebis”,  per passare poi ai Caetani  e all’occupazione di Ladislao re di Napoli,  e nel XIV secolo pervenne in proprietà della famiglia di Tuccio Normesini, come dote del suo matrimonio con Tancia, utima erede della stirpe dei Signori di Trevi,   che lo mantenne tra alterne vicende fino a quando non fu definitivamente distrutto sul finire del XV secolo dagli abitanti di Sezze, pur se il Comune vantava sul castello  dei diritti ”pro indiviso”con i Normesini, come risulta da un inventario dei beni del Comune redatto nel 1495.

Le motivazioni  ufficiali della distruzione furono da ravvisarsi nella tracotanza dei castellani che compivano rapine e furti di bestiame nel territorio di Sezze  oltre al fatto di  far rotolare enormi massi di pietra su quanti transitavano nei sottostanti viottoli delle  “coste delle Mole “e delle “coste del Rosacco” per recarsi in campagna.  La verità storica  della distruzione risiede però nel fatto che i Signori di Trevi avevano cercato di mettere le mani sul territorio di Sezze  (Giannetto, figlio di Tuccio Normisini era sindaco di Sezze) ed i sezzesi, che mal sopportavano le angherie e le gabelle di signori e feudatari, alle quali non erano avvezzi per essere sempre stati sotto il dominio diretto della Chiesa,  cancellarono per sempre il castello di Trevi dalla faccia della terra. La lotta fu spietata, i Trevigiani furono assediati e  costretti ad uscire dal castello per aver terminato le riserve di acqua e di cibo; furono  fatti prigionieri e in gran parte uccisi, Il castello incendiato e raso al suolo. La famiglia Normesini riuscì ad avere salva la vita e, seppure malvista dai sezzesi , tornò ad abitare nel vecchio palazzo di Porta Romana. Qui, dopo un po’ di tempo, i Normisini ospitarono  Papa Sisto V, che  giunse a Sezze  per ammirare dall’alto i lavori di prosciugamento della palude pontina che lui stesso aveva ordinato

2) - La Bonifica delle paludi di Sisto V e la sedia del papa

Da Gaetano  Moroni  in “Dizionario di erudizione storico- ecclesiastica”   - 1854 - vol  65 pag 76 leggiamo:

“Racconta il  cardinal Corradini, che Sisto V che da religioso conventuale aveva dimorato nel convento di Sezze,”( Padri Conventuali di S. Bartolomeo) “e che andava dicendo pubblicamente che a lui era riservato di rimettere que’ campi a coltura, divenuto Papa si portò tosto a Sezze, passò una notte nel luogo della palude, poi detto Padiglione di Sisto, girò ed osservò tutti que’siti, e con consiglio affatto sorprendente diè principio all’asciugamento delle Paludi Pontine, scavando il nuovo canale che dal suo nome fu detto fiume Sisto. Non conviene il Nicolai “   - (De Bonificamenti delle terre pontine - 1800) -  “ che Sisto V si portasse subito a Sezze e girasse i siti, perché vi si condusse senza corteggio molto tempo dopo ch’erano cominciati i lavori, cioè agli 11 ottobre 1589 dormì in Velletri, nel dì seguente andò in Sezze, ove alloggiò presso i Normesini, la cui casa fu  convertita nel suddetto monatero” – (Bambin Gesù) – “ dal cardinal Corradini. E’ fama che dalla cima di un colle rimpetto alla città e presso il monte Trevi si mettesse a riguardare la palude, che resta tutta esposta alla vista; ed un sasso, sopra cui dicesi che il Papa si ponesse a sedere, porta anche al presente il nome di Pietra di Sisto, dal volgo altresì detta Sedia del Papa

                                         antica carta delle paludi

Antica carta del Lazio del 1693: La selva di Terracina e il Circeo. La freccia rossa indica Torre del Padiglione dove  nel 1585 alloggiò papa Sisto V  -  Nella parte destra si nota la foce del fiume Sisto presso Torre Olevola ripiena dalla duna marina dopo  appena un secolo dallo scavo del canale

Contrariamente al racconto  (interessato) del  Nicolai , e secondo invece quanto riporta il cardinale  Corradini (Vetus Latium.. liber II, capXVII, pag 142)  Sisto V si recò  più volte di persona nei luoghi più selvaggi della Palude per rendersi conto dapprima dell’ambiente da bonificare e successivamente dell’andamento dei lavori  e degli effetti  prodotti da quei lavori. E’ da notare che in quel tempo gli spostamenti costituivano un notevole sacrificio, specie per una persona anziana: da Roma il Papa si spostava in lettiga a Velletri e da qui, attraverso la via pedemontana Volsca a Sezze, perché la Via Appia era allagata per buona parte dell’anno. Da Sezze il papa scendeva in palude a dorso di mulo, attraverso la costa delle Mole, soffermandosi spesso sullo sperone di roccia  chiamato in seguito Sedia del papa. Lo sperone di roccia  è stato semidistrutto per far posto all’urbanizzazione, ma il nome è rimasto ad indicare tutta la località. Le  frequenti visite in palude furono fatali al Santo Padre, nell’ultima compiuta nel 1589, contrasse le febbri malariche che lo condussero a morte nel giro di un anno. Il suo pontificato durò solo  cinque anni.

                            Sisto V papa

                                                                    SISTO  V

Figlio di contadini, Felice Peretti (qualcuno dice che il vero cognome fosse Ricci)  al secolo Sisto V, nacque a Grottammare (Ascoli Piceno) nel 1520 ; di temperamento ardito e risoluto, salito al soglio  pontificio nel 1585 si accinse immediatamente ai lavori di bonifica della palude pontina, diramando ai collaboratori ordini drastici e decisi per portare a compimento l’opera nel più breve tempo possibile. Uno dei maggiori ostacoli che si dovettero affrontare  era rappresentato dalla presenza di briganti che infestavano la palude e che trovavano riparo nella fitta macchia; gli ordini del papa furono tassativi: gli alberi di alto fusto dovevano essere sfruttati per impiccarvi  tutti  i banditi che mano a mano venivano catturati. A dimostrazione della fedele esecuzione delle direttive fu  persino recapitato a Roma, al Papa, un cesto di teste mozzate ai briganti.

Se la morte, avvenuta nel 1590, interruppe l’opera del grande Pontefice, i lavori che egli era riuscito a portare avanti, cioè il fiume Sisto con la foce a Torre Olevola, gli asicurarono per sempre la gratitudine di quanti, nei secoli successivi, si dedicarono alla bonifica delle paludi pontine.

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 LE RADICI DEI CARCIOFI DI SEZZE

L'Azienda Agricola Del Duca che ha radici secolari nel territorio del Comune di Sezze, del quale ha condiviso gli usi, i costumi, i mezzi di produzione e l’organizzazione della civiltà contadina, è stata la prima in assoluto a coltivare il carciofo romanesco in maniera intensiva. Nel 1897,  il  “campero” Alessandro Del Duca, conosciuto in paese come "Ndruccio Del Duca" affittò in località Roscioli alla migliara 47, nei pressi di Casal Volpe oggi Casale Bruciato, un appezzamento di terreno di un rubbio e mezzo (ettari 2,50) da investire a carciofi. I terreni appartenevano al vasto latifondo del  “Patrimonio Rappini di Casteldelfino” delle cui tenute “nonno Ndruccio” era già in parte affittuario o come si soleva dire in quel tempo “mercante di campagna

Ricevuta affitto

Ricevuta di affitto del 6 Agosto 1897 del fondo in località Quarto  Roscioli di Sezze

Fu scelto quel luogo anche su consiglio dell’amministratore  del Patrimonio Rappini,  tale Ignazio Di Giorgi, perché ritenuto il più idoneo alla produzione di carciofi tra i pochi allora disponibili.  Non è da dimenticare infatti che nel territorio di Sezze, come in tutto l’Agro romano imperava il latifondo e pertanto non si coltivavano piante ortive ( non ve ne era ancora necessità) ma solo cereali in forma estensiva, oltre a sconfinati pascoli per l’allevamento del bestiame allo stato brado con relativi procoi e masserie, come viene ricordato dal Lombardini, dal Tufo e da altri storici locali.I bulbi ( “ruzzole” o “cipollicchi” in dialetto) necessari alla propagazione delle piante, circa 20.000, furono raccolti con gran fatica negli orti dei terrazzamenti nella collina di Sezze e ai suoi piedi, in quelle poche “piaie” (terreni pietrosi) coltivate ad orto, le quali  dopo lo smembramento del latifondo della famiglia Ferri, divennero assai numerose oltre che preziose per l’espansione della coltura dei carciofi.Da ogni pianta si ottennero da due a cinque bulbi e la difficoltà a reperirli fu notevole, tant’è che nonno Ndruccio potè seminare solamente poco più della metà della terra presa in  affitto, e che completò solo nell’anno successivo con i rinascenti.I carciofi avevano avuto sino ad allora un’importanza solo per il consumo locale, come del resto tutte le piante da orto. Qualcosa però stava mutando e nonno Ndruccio, capostipite dei moderni imprenditori lo avvertì immediatamente.

Raccolta alle piaie

                          Carciofi nelle "piaie" dove ora si trova l'Ufficio Postale di Sezze Scalo

Infatti, il progresso scientifico e tecnologico di fine Ottocento ed inizio Novecento, unitamente all’esplosione demografica, stava conducendo ad una profonda ed irreversibile trasformazione  dell’intero sistema produttivo, economico e sociale con l’ampliamento dei mercati e della domanda di beni. Nel 1878, l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII (al secolo Gioacchino Pecci di Carpineto),  aveva scosso  non poco l’apparato borghese latifondista, il socialismo bussava alle porte della borghesia e le grandi proprietà terriere cominciavano a sfaldarsi perché non erano più in grado di garantire il tenore di vita ai loro padroni.L’esplosione demografica di Roma, che  passò dalle 300.000 anime del 1881 ai 500.000 abitanti all’inizio del nuovo secolo, fece aumentare la domanda di beni di consumo, di nuove  abitazioni, ed ebbero inizio molte opere pubbliche. I latifondisti colsero questa opportunità economica e iniziarono a vendere  e smembrare i  latifondi per investire nell’edilizia, ma tra gli acquirenti non ci furono i piccoli contadini, non ne avevano ancora la capacità economica.Tra i primi a vendere fu il latifondista Ferri,  (con proprietà dove ora sorge l’abitato di Sezze Scalo e oltre l’attuale ferrovia Roma - Napoli), che volle “privilegiare” i suoi contadini.Costoro, per poter acquistare, accesero dei mutui con la Cassa operaia cattolica  “S. Antonio da Padova” fondata a Sezze nel 1908 dal sacerdote setino Don Costantino Aiuti, ma poiché in tanti  non furono in grado di onorare i debiti contratti, buona parte dei terreni finirono all’asta e il latifondo appartenuto alla famiglia Ferri passò, in buona parte, nelle mani di  una nuova classe borghese che li rilevò così ad un prezzo assai conveniente.Per i piccoli contadini iniziava un periodo  di lotte e di occupazioni delle terre, per poterne possedere “una misura”, “tre terzi”, o “un rubbio”, che culminerà nel biennio rosso (1919 – 1920). Accanto ai contadini in lotta  per l’occupazione delle terre va ricordata l’opera meretoria  e benefattrice del sacerdote Don Giuseppe Del Duca (1855 – 1929), fratello di Nonno Ndruccio ed amico di Don Sturzo, parroco della Collegiata  di San Rocco prima e di Sant’Andrea dopo, morto il 31 Dicembre 1929 in assoluta povertà per aver donato i suoi averi e le offerte della Chiesa ai poveri, tra il rimpianto dell’intera popolazione di Sezze. Anche la popolazione di Sezze era in progressivo aumento: la statistica del 1853 rinvenne 8000 abitanti, il censimento del 1871 del nuovo Regno d’Italia ne enumera 9.440, che divennero 10.960 nello stato civile al 31 dicembre 1891. A tale data i due terzi della popolazione era dedita all’agricoltura.           In conseguenza del progresso scientifico e tecnologico, nel 1892  venne realizzato il tronco ferroviario Velletri – Sezze  Romano – Terracina,  ad un solo binario e con treno a vapore, che i Sezzesi chiamavano “Tuppitto”  per via del suo tup tup. Tale ferrovia  velocizzò i trasporti dal Lazio Meridionale  a Velletri, importante snodo ferroviario del tempo, e da qui fino a Roma ed il Nord Italia.L’insieme di tutte queste condizioni, ma soprattutto la consistente domanda di beni che proveniva dal mercato annonario della Capitale e parzialmente dal nord Italia, gettarono le basi per l’espansione della coltura dei carciofi che, grazie alla ferrovia, ne aveva accorciate le distanze rendendo più economico il trasporto. Basti pensare che un carrettiere, per portare un modesto carico a Roma, impiegava non meno di due giorni, compreso il ritorno e le soste.

StandI Sagra 1970

                                            Stand alla I Sagra del Carciofo di Sezze - anno 1970

I carciofi ottenuti furono spediti  da nonno Ndruccio al Mercato Annonario della Capitale, in un primo momento a mezzo di carri trainati da cavalli, ma ben presto con i buoni consigli dei concessionari di questo mercato, che nel frattempo si erano attrezzati, le spedizioni  avvennero per ferrovia con  le carrozze merci di “Tuppitto” da Sezze Scalo a  Velletri e quindi a Roma Ostiense. In queste spedizioni ferroviarie l’Azienda agricola Del Duca fu subito coadiuvata da altri camperi del calibro delle famiglie Angelini ( conosciuta in paese col soprannome “Vaccarella”) Coltrè, Boffi, Fanelli, Iucci, Pietrosanti, La Penna, Berti, Maselli e altri ancora. I buoni risultati ottenuti da queste spedizioni ferroviarie fecero sì che la coltura dei carciofi, sino ad allora rilegata agli orti di Sezze o ai piedi della collina su poche ” piaie”  si estendesse un pò ovunque  nella pianura pontina , fino a raggiungere  il suo apice di produzione con la Bonifica Integrale delle Paludi Pontine, quando i nostri contadini si spinsero a coltivarli nei terreni bonificati, fino a Terracina e a Campomorto (oggi Campoverde ) nelle più svariate forme di contratti agrari. Questi buoni risultati ottenuti dalle spedizioni  ferroviarie fecero sì che tutti i carciofi prodotti a Sezze venissero a concentrarsi nel piazzale della Stazione ferroviaria, che presto divenne un centro per la  commercializzazione del carciofo, il cosiddetto mercato spontaneo che durerà sino a metà degli anni 90. Tale mercato spontaneo, nei primissimi decenni del Novecento, grazie anche allo sviluppo dei trasporti su gomma,  assunse  i connotati di un vero e proprio mercato stagionale alla produzione, con commercianti provenienti da Torino, Milano, Bologna, Rimini, Perugia  a mezzo dei primi autocarri Fiat BL 18, con i fari a carburo che si accendevano con i cerini come quelli delle biciclette, ma anche dall’Abruzzo, da Roma, Velletri e i Castelli Romani  con  “Balilla” trasformate in autocarri, e non si fermerà neanche durante i due conflitti mondiali e le guerre libiche.

Contadini di Sezze in Libia

Sceicco in Eritrea

Nella foto sopra alcuni contadini di Sezze in Libia durante la guerra coloniale del 1936.

In quella di sotto uno sceicco di Habab con i sottocapi. Eritrea 1936

Per avere una idea dell’imponenza di questo mercato e della enorme ricchezza che ne scaturiva per l’economia di Sezze, basti dire che dagli anni trenta e sino agli anni sessanta, ogni mattina vi confluiva a raggiera da ogni strada del campo di Sezze,  una lunga fila di carri, carretti, barrozze, asini e muli che in periodi di punta arrivava a toccare fino a cinque o sei chilometri.Sezze Scalo, quasi completamente disabitato sino a tutto l’ottocento, in virtù dell’economia creata dai carciofi vide sorgere le prime osterie,vere tappe obbligate di ristoro per contadini, commercianti e sensali, le prime case con  annessi magazzini per la lavorazione dei carciofi, attività commerciali e di trasporti  legati all’agricoltura,  officine,  attività artigianali  e persino  una industria come l’Ansaldo, per le traverse ferroviarie. Insomma Sezze Scalo, grazie al mercato dei carciofi, sviluppava le caratteristiche di un grosso insediamento commerciale, tanto che nel 1946 il primo Sindaco di Sezze, il socialista Ovidio De Angelis, alle prese con il  grosso problema della ricostruzione dai bombardamenti ,vi  ipotizzò una delocalizzazione delle case distrutte del centro storico, perché  convinto dell’ immenso sviluppo economico di questo nuovo insediamento.   

Sezze tracce Ercole

 Immagini dal documentario "Sezze sulle tracce di Ercole"  con Vittorio Del Duca e Rosalba Mancini

 Preparativi Diretta RAI

Preparativi per la diretta RAI.  Zina Gontariu mostra alle telecamere i carciofi Del Duca

 

L’ Azienda Agricola Del Duca, non si è limitata alla sola coltivazione dei carciofi romaneschi  ma anche alla loro selezione varietale. Dalle piante degli orti di Sezze e delle piaie, l’opera selettiva ultracentenaria, iniziata con nonno Ndruccio, successivamente continuata in forma societaria dai figli Vincenzo, Pietro, Giuseppe, Agrippino  e  ai giorni nostri dal nipote Vittorio,  ha dato origine ai carciofi delle foto.

Salvatore Santucci, detto Toto, con il figlio Antonio coadiuvanti nella produzione di carciofi dell'Az. Agricola Del Duca mostrano il risultato della selezione aziendale ultracentenaria operata sul carciofo di Sezze.

Scopo di questa selezione varietale è stata quella di produrre carciofi con le caratteristiche richieste dal mercato, ottima pezzatura con colorazione verde e violetta dei capolini, gambo lungo con  gran numero di foglie, che neanche le norme per le confezioni a marchio IGP sono riuscite a contenere. Nel nostro caso, siamo riusci a selezionare carciofi con gambo fino a 52 cm, superando la lunghezza di una normale cassetta a standard europeo (50 cm) e con un numero di foglie che passa da tre a cinque. Questi carciofi sono l’ideale per la confezione in mazzi, mentre per quella in cassette si rende a volte necessario spuntare ii gambi di qualche centimetro e  togliere qualche foglia. Un record di selezione varietale insuperabile, come il loro sapore, che le terre ed il clima di Sezze rendono unico ed inimitabile!

Vittorio Del Duca

Vittorio Del Duca spiega agli associati di Coldiretti come rilanciare il territorio e le sue tipicità

Rai tre

  Preparativi per la diretta TV di Raitre Buongiorno Regione

Selezione carciofi

Operaie addette alla selezione e al confezionamento dei carciofi

Carciofi

V. Del Duca_________________________________________________________________________________________________________________________________________

 Vittorio Del Duca mostra i carciofi di Sezze ottenuti in oltre un secolo di selezione varietale.


                    GLI ARCHI DI SAN LIDANO E L'ANTICA VIA SETINA

Archi San Lidano (foto I. Romano)

                              Archi di San Lidano  (foto di Ignazio Romano)

Gli Archi di S. Lidano sono una massiccia struttura ad arco romano, risalente al II° secolo a.C. realizzata con grossi conci radiali di calcare locale.
In origine erano in numero di tre, ma oggi è rimasto in piedi solo quello centrale, il più alto. Dei due crollati, quello a sud è completamente sparito e ne rimane traccia solamente in qualche grossa pietra, mentre l’altro, a nord, è appena visibile grazie ad un restauro eseguito nel 1983 in maniera piuttosto spartana, per cui necessiterebbe di un nuovo ed urgente intervento.
I vari autori che hanno scritto su Sezze concordano che gli Archi furono un ponte su cui passava l’antica Via Setina ad eccezione del prof. Vincenzo Tufo (Storia Antica di Sezze,1908), secondo cui sarebbero stati un riparo per i viandanti e la Via Setina vi sarebbe passata a lato, perché erano ancora visibili, nel tempo in cui scriveva, le tracce dell’antico basolato (1). Ma un semplice riparo per viandanti non giustifica una struttura così massiccia, che sembra progettata appositamente per sopportare carichi molto pesanti e dinamici, quale una strada sopraelevata con mezzi in movimento.
D
el resto, la larghezza degli Archi, anche se di soli m. 4,50 è idonea a consentire il contemporaneo transito dei carri in entrambe le direzioni e rientra nei parametri di larghezza delle carreggiate di epoca romana, comprese tra i 4 ai 6 metri in pianura e da 10 a 14 metri nei tratti tortuosi in pendio, così come nel tratto collinare tuttora esistente della Via Setina che misura m. 10,20 compresi i paracarri (2).
La stessa Via Appia era larga nel tratto pontino appena 14 piedi romani, cioè m. 4,10, e pertanto possiamo ritenere che la via Setina, di importanza minore, non dovesse superare tale misura. E’ perciò sufficientemente attendibile che gli Archi di San Lidano fossero un ponte dell’antica via Setina.
E’
stato scritto che la Via Setina, sin dalla fondazione della colonia romana di Setia (384 a.C), scendeva dal paese e conduceva ai Colli Albani, dove i setini avevano necessità di recarsi per le adunanze con gli altri confederati della Lega Latina. Qui, in una località denominata la Faiola esistevano a fine ottocento avanzi di una via che chiamavano Setina (3). Ma questo percorso, come è stato altresì scritto da più parti, era possibile anche attraverso l’antica via pedemontana volsca, che correva lungo le falde dei Lepini e che costituiva il più antico asse di collegamento tra il Lazio meridionale e la bassa valle del Tevere. Quale necessità ci sarebbe mai stata di una strada parallela alla consolare per recarsi alle adunanze sui colli Albani? Io penso nessuna, ed infatti non sembra vi siano notizie di ritrovamenti (4) che in qualche modo suffraghino l’ipotesi di un percorso autonomo della Via Setina dopo il Brivolco. Le notizie che ci sono pervenute sono imprecise e frammentarie tanto da far dire al cardinale Corradini , nel “De civitate et ecclesia setina” ( Cap I pag.5) (5), che “il percorso della Via Setina iniziava da Roma e secondo alcuni (Publio Vittore e Panvinio) immetteva nell’Appia con un diverticolo per Sezze nei pressi di Foro Appio, secondo altri avrebbe avuto invece un percorso del tutto autonomo”. 
L'unico tratto certo della Via Setina è quello tuttora esistente, discretamente conservato in qualche punto, e che discende dal paese da Porta Romana, passa frontalmente alla chiesa della Madonna della Pace (6) e costeggiando la Valle della Cunnula (7) tra alcuni pyrgos, incontra la vecchia Cappella Lombardini (8), le rovine della Chiesa di Santo Sosio (9), quelle della Chiesa della Madonna dell’Appoggio (10) e dirige in pianura con un ponte romano sul torrente Brivolco (11), dopo il quale a un centinaio di metri incrocia l’antica via pedemontana volsca (oggi chiamata Via Acquapuzza o anche Via Sicilia). Al di là di tale incrocio, non risultano mai rinvenute tracce del basolato di tale via, sia nella parte del centro abitato di Sezze Scalo che nella campagna circostante (c.f.r. Tufo V. op. cit. pag 48)

Tratto della Via Setna

 Un tratto dell'antica Via Setina  con pyrgos e parracarri- ( Foto Ignazio Romano)
 

Ordinando questi tasselli, possiamo dedurre che ai tempi della Lega Latina la Via Setina raggiungeva i Colli Albani raccordandosi dopo il Brivolco con l’antica strada pedemontana volsca. Solo in epoca successiva, ovvero con la costruzione della Via Appia, iniziata nel 312 a. C. dal censore Appio Claudio, e con l’importanza sempre più crescente sia di questa arteria che del Foro Appio, in termini di grosso polo di attrazione commerciale, religioso e di aggregazione della popolazione rurale (12), si avvertì la necessità di immettere la via Setina sull’Appia, con un diverticolo in prossimità del Foro, sfidando le insidie frapposte dal territorio nella località degli Archi, ricco di corsi d’acqua che tracimavano con estesi pantani.
I
nfatti in tale luogo convergevano da Ninfa e dintorni i fiumi Teppia, S. Nicola, Portatore, il Ninfèo o Cavata, dal monte Acquapuzza proveniva un fiume d’acqua sulfurea detto Puzza e quasi tutti si immettevano nel canale Cavata, (13) che giungeva come ora a Foro Appio. Dal Monte Acquapuzza discendeva un altro fiumicello, il Cavatella, e poco lontano il Rosciolo, un antico fiume oggi non più esistente ma del quale si aveva notizia sino al XVII secolo perché, come scrive Ciammarucone, “divertito altrove dai setini per benefitio della campagna; presso il quale si veggono alcune ruine del Monastero di Santa Cecilia fabbricato da Santo Lidano Abbate Protettore di questa Città (Sezze)…” (14).
I
l Cavata, che andava a confluire nel porto fluviale di Foro Appio, era sicuramente navigabile a mezzo di piccole imbarcazioni, chiamate sandali, usati per i trasporti verso i centri collinari dei prodotti della palude (legnatico, carbone, giunchi, anguille, pesci e cacciagione). In sandalo andavano i viaggiatori romani quando da Forum Appii solevano raggiungere Terracina attraverso il canale del Decennovium (15) e si ha memoria, in tempi meno remoti, del loro uso per raccogliere e trasportare granturco quando le piogge precoci ed abbondanti estendevano la Palude Pontina fin quasi alle cosiddette ” terre alte”. I sandali erano quindi in grado di navigare non solo fiumi e canali ma l’intera palude.
P
er far passare la Via Setina in quel luogo paludoso ed insidioso e dirigerla sull’Appia in direzione del Foro (con un percorso più o meno coincidente con quello dell’attuale Migliara 41, altrimenti chiamata Via Villafranca), non esisteva altra possibilità che quella di realizzare una “via aerea”, un ponte a Tre Archi, cioè a tre luci, i cui piloni di centro avevano altresì la funzione di rallentare il corso delle acque del canale (16) e agevolare il transito dei sandali.
Che il fiume fosse navigabile ce lo attesta l’altezza degli Archi rispetto al piano dei terreni circostanti; non vi sarebbe stata infatti alcuna esigenza di far salire la Via Setina su un ponte così alto, se al disotto non avessero dovuto transitarvi delle imbarcazioni.
Questa antica via d’acqua, unitamente agli altri fiumi sopra menzionati, procurava a questa zona frequenti inondazioni ed estesi pantani. Ce ne dà oggi conferma la toponomastica, poichè la località immediatamente a Nord Est degli Archi di S.Lidano, sino allo stradone dell’Arnarello, viene ancora oggi conosciuta con il nome di Pantanelle, nonostante nessuno a memoria d'uomo ne ricordi i pantani.
Inoltre quando S. Lidano, monaco benedettino, costruì nel 1046 nei dintorni degli Archi l’Abbazia di Santa Cecilia, in ossequio alla regola benedettina di una vita penitente, ancor prima di porre la prima pietra dovette bonificare il territorio paludoso circostante (come risulta dal Codice membranaceo della Leggenda medioevale di Lidano d’Antena, conservata nell’archivio della Cattedrale di S. Maria), non certo però a causa della Palude vera e propria, perchè i luoghi erano e sono tuttora ad un’altitudine di oltre 6 metri sul livello del mare, quanto piuttosto per gli estesi pantani formati dalle esondazioni fluviali, nelle cui acque non si esclude la presenza della trota di Ninfa, un pesciolino ormai estinto, originario delle sorgenti omonime e che trovava il suo habitat ideale nelle acque basse e nei pantani.

In prossimità degli Archi, si diparte la strada comunale detta Via del Pesce che va a collegarsi all’antica via pedemontana volsca e forse costituiva il tratto della Via Setina che precedeva la via aerea degli Archi. Infatti provenendo dall’Appia lungo la migliara 41 e traguardando gli Archi di San Lidano si ha la netta impressione di come la via aerea che vi passava sopra dirigesse, con un percorso coincidente pressappoco con la Via del Pesce, verso l’Antignana, alle cui falde, a pochi passi dalla via pedemontana volsca, si trovava la villa della potentissima gens Antonia. La tradizione popolare ripone nel nome di questa strada la memoria dei pesci, che può legarsi tanto alla pescosità dei canali e dei pantani della zona, quanto al fatto che attraverso questa strada si trasportava a Sezze il pesce pescato nella palude, proveniente dal porto fluviale di Foro Appio e forse scaricato dai sandali a ridosso degli Archi. 
D
opo la costruzione dell’abbazia di S. Cecilia, così chiamata dal nome della madre di San Lidano, e fino alla sua distruzione da parte di Federico II Barbarossa nel 1229, gli Archi erano denominati “Archi di Santa Cecilia”. In precedenza erano chiamati “Tre Archi” e successivamente quando San Lidano, subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1118, divenne patrono di Sezze coram populi, la tradizione a perenne ricordo del Santo e del suo lavoro li chiamerà nei secoli con l’attuale denominazione di “Archi di S. Lidano” e il territorio limitrofo “Quarto S. Lidano” (17). 

Note: 
(1)
Al tempo del prof. Tufo, come egli stesso scrive, alcune tracce del basolato dell’antica via Setina si trovavano ancora a lato degli Archi, per cui esclude che siano stati il ponte di una via aerea quanto piuttosto un riparo per i viandanti. C’è tuttavia da notare che in quel tempo erano state già compiute numerose ed importanti bonifiche del territorio che avevano stravolto la morfologia fluviale, a cominciare dalla bonifica di S.Lidano, passando per quelle romane sino a quelle di papi come Sisto V (1542) o quella ancora più importante di Pio VI (1798) per cui gli alvei di alcuni fiumi, come il Cavata e Cavatella, erano stati più volte risistemati e deviati dal loro corso, mentre altri come il Teppia, il Rosciolo e loro affluenti ripieni ed eliminati. Ragion per cui, bonificati i luoghi e non passando più alcun corso d’acqua sotto gli Archi, era venuta meno la loro funzione di ponte e quindi la Via Setina risistemata a lato, in piano, per evitare inutili salite. Sicuramente il Prof. Tufo avrà fatto anch’egli queste valutazioni, purtroppo non ci dice i motivi che l’hanno indotto ad escluderle.
(2) Per i tratti in salita con curve molto angolate, si richiedeva una carreggiata doppia o tripla di quella di pianura sia per agevolare gli animali nella trazione dei carri offrendo loro più spazio di manovra, sia per ridurre il rischio di incidenti dovuti a scivolamenti o a cadute delle bestie trainanti. 
(3) V. Tufo – Storia antica di Sezze – Tipografia Reali, Veroli 1908.
(4) In realtà viene riportato dal Tufo (op. cit.) il rinvenimento nei pressi dello stradone dell’Arnarello, ( sito a circa 1,5 km di distanza ad est degli Archi), del ceppo miliario XLIII che si presunse dell’antica Via Setina . Da ciò si argui che la Via Setina passasse per tale stradone. A mio avviso, un reperto isolato e non accompagnato da altri indizi che comprovino il passaggio in quel luogo della Via Setina non dice assolutamente nulla, perché il ceppo miliario potrebbe esservi stato trasportato per diversi motivi, anche banali, che non conosciamo.
(5) P.M. Corradini – De Civitate ,et Ecclesia setina - Romae 1702 
(6) La Chiesa della Madonna della Pace fu eretta nel 1500 alla fine di tre secoli di ostilità tra setini e sermonetani sia per questione di confini, sia perché i sermonetani per allontanare le acque dal loro territorio rompevano gli argini dei fiumi deviandole verso i campi di Sezze. 
(7) Cunnula è la forma dialettale di Culla. Infatti la Valle della Cunnula è la culla della civiltà di Sezze.
(8) Dopo l’editto Napoleonico di Saint Cloud, applicato in Italia nel 1806, che vietava tra le altre cose la sepoltura nelle Chiese e dentro le mura delle città, la notabile famiglia Lombardini costruì in questo luogo della Via Setina, nei pressi della Chiesa di Santo Sosio, una cappella per i propri defunti, tuttora esistente.
(9) Non si hanno molte notizie su questa chiesa e sul culto di questo Santo, ancora oggi venerato a Castro dei Volsci (Frosinone) dove il popolo lo invoca efficacemente contro i mali delle ossa. Secondo il Martyrologium Romanorum della CEI in cui è riportato il martirologio del Venerabile Beda, si tratterebbe di San Sosio di Miseno, nato nel 205 d.C. 
Franco Zullo, autore del paragrafo del Martiriologio dedicato a Santo Sosio dice che esistono differenti versioni circa il vero nome del santo, tra Sosio, Sossio e Sosso. Noi a Sezze lo chiamiamo Santo Sosso. Tra gli studiosi è prevalente l'opinione che si tratti di un nome di origine latina, Sosius, nome di una gens romana. Le parole Sossus e Sossius dovrebbero essere una derivazione osca, con la caratteristica doppia "s" sibilante. Fu uno dei più ardenti animatori di gruppi dei primi cristiani tra Miseno e Pozzuoli. Miseno fu distrutta dai saraceni e la popolazione che scampò alla carneficina riparò all’interno, dove fondò la città di Frattamaggiore. I Benedettini, che all’inizio del X secolo ne ritrovarono le spoglie fra le rovine della chiesa misenate, ne custodirono il corpo a Napoli, presso il convento di San Severino, preservandolo dalle scorrerie dei Saraceni: grazie a loro se ne diffuse il culto in Campania, nel Lazio e persino in Africa. Nel 1807, in seguito alla soppressione del convento ad opera di Napoleone, le spoglie del Santo insieme a quelle dell'Apostolo del Norico San Severino, che per tanti secoli avevano riposato accanto nel convento dei Benedettini, furono traslate nella Chiesa madre di Frattamaggiore, dove ancora oggi sono oggetto dell'amore e della venerazione di tutti
(10) La tradizione popolare narra che nel XV secolo, un carrozza mentre risaliva la Via Setina, si sganciò dai finimenti dei cavalli che la trainavano e tornò indietro nella ripida discesa prendendo velocità con tutto il suo carico di persone. Fu per puro caso che non rotolò giù per la Valle della Cunnula, perchè la sua corsa fu miracolosamente fermata da un pyrgos (torretta di avvistamento) sito sul lato della strada, dove poggiò a poco meno di un passo dal ciglio della valle. La paura per la scampata tragedia fu tanta e sul luogo dell’incidente, in segno di ringraziamento alla Madonna fu costruita una chiesetta, che il popolo chiamò in seguito Madonna dell’Appoggio. Il nostro emerito concittadino Don Massimiliano Di Pstina ha scritto che questa chiesetta, oggi diruta e pericolante sulla sottostante cava di calcare negli anni 60, fu tanto cara a San Carlo che spesso vi si recava per pregare, in particolare a chiedere grazia per il fratello gravemente ammalato. Il Santo si rivolgeva alla Beata Vergine con il Bambino, raffigurata in un pregevole dipinto tuttora esistente ma in pessime condizioni perchè sbiadito e corroso dalle intemperie. Questa chiesetta racconta una parte importante della storia di Sezze e meriterebbe un progetto di recupero per essere inserita in un percorso di pellegrinaggio dedicato ai luoghi in cui visse San Carlo. Vicinissimo ad essa sono ancora visibili, tra rovi e sterpaglie, le rovine del pyrgos che trattenne la carrozza.
(11) Il ponte sul Brivolco che attraversiamo oggi non è quello originario romano. Questo fu distrutto nella alluvione del 1909, colpito dai macigni e dai detriti trasportati dalla furia dell’acqua nella Valle della Cunnula e che distrusse anche il mulino ad acqua della famiglia Filigenzi. Il nuovo ponte fu ricostruito un poco più distante da quello romano, ma durò solo pochi decenni perché fu bombardato dagli alleati il 23 Gennaio 1944 per contrastare la ritirata tedesca da Anzio a Cassino. Quello che oggi attraversiamo è stato ricostruito dopo la guerra e nuovamente spostato dal luogo del precedente
(12) E. Bruckner – Forum Appi – Napoli, 1995
(13) - Nicolai – De Bonificamenti delle terre pontine. Rimedi e mezzi per essiccarle – Roma, Stamperia Pagliarini, 1800 - E. Bolognini –“Memorie dell’antico, e presente stato delle paludi pontine..” – Roma 1759, Stamparia Apollo
(14) G. Ciammarucone – Descrizione della città di Sezze – Stamperia della Rev. Camera Apostolica, 1641
(15) F. Gregorovius – Passeggiate per l’Italia -.Vol. I – Carboni Editore, Roma 1906 
(16) Non si ha alcuna notizia sul nome del canale navigabile che passava sotto gli Archi ed è difficile azzardare una ricostruzione storica, sia per le innumerevoli bonifiche avvenute nel corso dei secoli, che hanno stravolto la morfologia fluviale, sia per la le notizie pervenuteci che, quando esistono, sono quasi sempre frammentarie e con pochi particolari sui luoghi. 
(17) V. Venditti – La Leggenda medioevale di Lidano D’Antena o.s.b.– Marietti, 1959 – Giova notare, come afferma Don Vincenzino Venditti (op. cit. nota 1 pag 58) che l’agro di Sezze e quello Pontino è ripartito in varie contrade dette anche “Quarti”,che prendono il nome dalla natura ambientale del terreno o da qualche avvenimento di locale tradizione storica. Così abbiamo il Quarto San Lidano, il Quarto Acquaviva, il Quarto Palazzo, ecc. Tali zone o contrade, compaiono tuttora nelle mappe catastali con la denominazione di “Quarto..”.

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SANTA PARESCEVE TRA STORIA, LEGGENDA E FANTASIA                                                                                           

 PREMESSA

Un ringraziamento particolare va agli amici Fabrizio Paladinelli Presidente dell’Associazione culturale "Il Cammino" e Vittorio Borsi  Presidente dell’Associazione culturale "Buna seara Romania", che dopo giorni di ricerca e di grandi fatiche, lavorando sul terreno roccioso e sconnesso dell’Anfiteatro, hanno rinvenuto la Pietra del Tesoro, nascosta tra i rovi e  l’hanno ripulita. Grazie alla loro opera è stato possibile  fotografarla. Le foto vengono riportate a corredo di questo testo.

Il martirio di Santa Parasceve a Sezze sotto la prefettura di Asclepiades

In località Piagge Marine, dopo aver attraversato la parte ad est dell’Anfiteatro, su di un masso isolato alto m. 4,55, si trova, in riquadro, l’iscrizione sepolcrale corrosa del tempo, che ricorda C. Licinius Asclepiades Medicus, conosciuto anche come Asclepia o Asclepio, medico e prefetto dell’antica Setia (1).  Più fonti (2) attestano che un personaggio con tale nome è stato prefetto della  “città”  in cui avvenne il martirio di Santa Paresceve, nel160 d.C. sotto l’impero di Antonino Pio, senza alcuna precisazione del nome  della città. Secondo il Lombardini, (3) invece, tale città sarebbe Sezze, perchè desunto da opere di  “ bollandisti e scrittori degli atti dei martiri cristiani” che però hanno scritto molti secoli dopo il martirio (4), ed infatti definisce Paresceve  “giovanetta setina”.    Il  luogo del sepolcro di Asclepio fu chiamato dal popolo “la prèta glì trasòro” (pietra del tesoro) forse perché, come afferma lo stesso Lombardini (op. cit), “la tomba devastata e frugata abbia accreditata la credenza, o per l’iscrizione, che per il volgo ha un significato arcano”.                                                                                                                                               

               

                         La tomba di Asclepiades detta La pietra del tesoro

  Riguardo al personaggio, lo stesso autore ribadisce: “questo eccentrico Asclepiade, senza tema di errare, ritengo sia esistito ai tempi di Antonino Pio, nei quali a ciascuna città fu addetto un maggiore o minor numero di medici secondo il bisogno, eletti e  stipendiati dalla città stessa.”                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     Non  esistono però fondamenti certi che l’iscrizione sepolcrale sia del II secolo dopo Cristo, cioè del tempo di Antonino Pio, perché  l’Armstrong (1) la farebbe risalire al periodo repubblicano a causa del carattere delle lettere, ma in questo caso si tratterebbe di un altro prefetto con identico nome. Coincidenza veramente singolare, per quanto inverosimile, considerando  i tre nomi di Asclepio! Tanto meno possiamo spostare l’epoca del martirio di Santa Paresceve, perché tutte le fonti sono concordi nell’affermare che avvenne  sotto l’impero di Antonino PioNon esistono neanche fondamenti certi che Santa Parasceve fosse setina, o che la sua famiglia  possedesse dei beni a Sezze ed infatti diverse città del sud ne rivendicano la cittadinanza, soprattutto Locri, il paese natale del padre, ma la maggior parte delle fonti concordano sulla sua nascita a Roma, nel II secolo d.C.  Sappiamo  per certo che santa Paresceve venne al mondo all’epoca dell’imperatore Adriano, da ricchi genitori cristiani, Agatone da Locri ed Ippolita, che ne avevano ottenuto la  nascita con le  preghiere, dopo 35 anni di matrimonio. Alla loro morte Parasceve vendette  i beni ereditati e distribuì il ricavato ai poveri; si ritirò in preghiera in un convento di Roma, che dopo qualche anno lasciò  per predicare pubblicamente la dottrina cristiana.La predicazione della dottrina da parte di una donna, per giunta contraria a quella impartita dalla religione ufficiale, provocò l’ira dei giudei che la denunciarono all’imperatore Antonino Pio.Da questo momento iniziano le sue persecuzioni, ma anche le vicende miracolose e leggendarie che segnarono la  vita della santa. L’imperatore, per punirla, fa riscaldare sulla fiamma, fino a renderlo incandescente, una specie di elmo metallico che i carnefici le pongono sul capo, senza  provocarle alcun danno. In molti, vedendo questo prodigio si convertono. Riportata in prigione, un angelo la libera dalle catene, ma ricondotta dall’imperatore viene appesa per i capelli mentre i carnefici ne tormentano il corpo con fiaccole accese, sempre senza provocarle alcun dolore. Così viene preparato un gran pentolone pieno d’olio e pece bollente in cui viene fatta immergere,  ma rimanendo indenne alla tortura, Parasceve spruzza questo liquido bollente sugli occhi dell’imperatore Antonino, che poi ella stessa guarirà dalle piaghe. L’imperatore, visto il prodigio, si converte al cristianesimo e si fa battezzare (5).  Nelle more delle sue predicazioni, giunse “in una città”  che secondo il  Lombardini  sarebbe Setia, dove era prefetto un certo Asclepia o Asclepiades (6), che la interroga sulla sua religione e rimanendo turbato dalle sue risposte, la fa condurre fuori dalla città in una grotta abitata da un terribile drago. La santa traccia un piccolo segno di croce e la bestia ruggendo si squarta in due: a questa vista Asclepio ed altri testimoni si convertono e vengono da questa battezzati. Se l’incontro di Paresceve con l’Asclepio setino fosse autentico, non avrebbe trovato luoghi migliori di Sezze, soprattutto se immaginiamo che costui, una volta convertito alla  religione cristiana, avrebbe potuto manifestare il desiderio di essere sepolto là dove aveva assistito al prodigio della santa, cioè in quel masso isolato, misterioso e leggendario che il popolo chiamerà la “pietra del tesoro”. Se così fosse stato, a pochi passi dalla pietra del tesoro esistono delle grotte carsiche (7) capaci di aver evocato nell’immaginario del popolo, fantasie e leggende come quella del drago: la bestia mostruosa ed orrenda, simbolo del male, che nelle antiche leggende ricorre sovente come guardiana di presunti tesori. Così è, ad esempio e tanto per rimanere a Setia, nella storia di Giasone ed il vello d’oro, raccontata nelle “Argonautiche” dal setino  Caio Valerio Flacco. Paresceve continuò le sue predicazioni e giunge ancora “in altra città” governata da un “tale Taresio”, che  la fece decapitare dopo altri supplizi, per aver ingiuriato Apollo davanti al suo tempio. Su questo tempio  i cristiani eressero in seguito la chiesa ad essa dedicata. Alcuni fatti veri, soprattutto la presenza nell’antica Setia di un prefetto di nome Asclepio,  la chiesa di S. Parasceve costruita sul tempio di Apollo (8) ed altri fatti immaginari potrebbero accreditare Sezze come la misteriosa “altra città".  Manca però un governatore di nome Taresio e tanto meno abbiamo elementi per affermare che si sia trattato di uno pseudonimo di Asclepio. Il nome Taresio nella storia è molto vago, appare errato oppure come storpiazione di  L. Taurio, un personaggio  esistito al tempo della guerre civili di Roma e anteriore alla grande battaglia di Azio del 31 a. C. (9).    

                              

                             La grotta di Fonte della Chitarra a pochi passi dalla Pietra del Tesoro

Anche la vita della Santa è avvolta dal mistero, essa è stata oggetto di non meno di quindici “passiones” e di un “elogio” riportati in manoscritti , quasi tutti anonimi, redatti tra l’XI e il XVI secolo; i maggiori particolari sulla sua storia sono stati ricavati dall’elogio scritto da Giorgio Acropolita nel sec. XVI. Il culto di santa Parasceve, chiamata anche santa Venera o santa Veneranda, è stato di grande popolarità in epoca medioevale in tutto il centro  sud e ciò spiegherebbe la costruzione a Sezze della chiesa ad essa dedicata, risalente al XI secolo, anche se sembra esiguo o inesistente il numero dei devoti che ha voluto assumerne il nome, al pari degli altri santi.Per gli studiosi di avvenimenti sacri (10) due particolari, tra gli altri,  risultano del tutto  inverosimili: l'esistenza di un monastero femminile a Roma nella seconda metà del sec. II, e la pubblica predicazione del Vangelo ad opera di una fanciulla, cosa discordante coi costumi dell'epoca e contraria al divieto fatto da S. Paolo alle donne di predicare la parola di Dio.

                         

                                  La Fonte della Chitarra a pochi passi dalla tomba di Asclepiades

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 Il                                                                                                                                                                                                                                                                                       

 

 La Chiesa di Santa Paresceve sui ruderi del tempio di Apollo, presso Porta Pascibella (De primis antiqui populi ...)

Note

1)- L’iscrizione sepolcrale è riportata  da  F. Lombardini  -Storia di Sezze – Velletri 1909 , Editrice Lizzini , da  Armstrong H.H. -Topographical Studies at Setia  in  American Journal of Archaeology,  XIX, 1915  che la fa risalire al periodo repubblicano per lo stile delle lettere e più recentemente da  L. Zaccheo – F. Pasquali  Sezze, Guida all’Antiquarium e ai maggiori Monumenti-  Angeletti Editore, 1970                                     

2)-  Codice Ambrosiano P 210, in AA.VV., Bibliotheca Sanctorum, Ist. Giovanni XXIII della Pontificia

Università Lateranense, Vol. X, par. 328/331- Città Nuova Ed., Roma 1982. 

3) F. Lombardini- Storia di Sezze, pag 37- Velletri 1909, Casa Editrice Lizzini                                                                                       

4) Il Lombardini nella nota 42 della Storia di Sezze afferma di aver tratto notizie del martirio di  Santa Paresceve  da Martyrol.S.R.E. Mediolani 1578  e da  De Natali ….. passa est sub Asclepio praeside.

5)- A. Montesanti – Tra mare e terra-  Edizioni Fegica- 1999                                                                                                                                         

6) - Codice Ambrosiano P 210, in AA.VV., Bibliotheca Sanctorum, Ist. Giovanni XXIII della Pontificia

Università Lateranense, Vol. X, par. 328/331- Città Nuova Ed., Roma 1982.  

                                                                                           

7) – Una di queste grotte si trova a pochi passi dalla tomba di Asclepiades, procedendo in direzione sud  est  nei pressi della “Fonte  della  Chitarra”. Altre grotte carsiche si trovano poco distanti dalle tre croci dell’Anfiteatro e a sud ovest di queste.  

                                                                                                                                                                                                                                                                                  

8)-  Che il tempio di Apollo fosse esistito a Porta Pascibella , dove si trova attualmente la chiesa di S.Paresceve, viene riportato  dal Cardinale Pietro Marcellino Corradini in “De civitate et Ecclesia setina”, Romae 1702   e da V. Tufo “Storia Antica di Sezze”- Veroli, Tipografia Reali, 1908  che citano il rinvenimento in loco di una iscrizione attestante un restauro del tempio  di Apollo ad opera di L.Aninius  L. F.Capra IIII, un personaggio della colonia romana di Setia.                                                                                                                                                                       

9) – Dissertazioni della Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Tomo VI – Roma - Stamperia della R.C.A. 1835 

10) –  Centro Studi San Carlo da Sezze – sito internet .      


 

150° ANNIVERSARIO  DELL’ UNITA’  D’ITALIA    

Una storia di briganti e di bovari per l’annessione plebiscitaria dello Stato Pontificio

Dopo la caduta della piazzaforte borbonica di Gaeta e l’annessione del Regno di Napoli, il 17/3/1861 Vittorio Emanuele II veniva proclamato re d’Italia. L’unificazione non era però ancora completa e al nuovo Regno mancavano il Veneto, ancora in mano austriaca, e ciò che restava dello Stato Pontificio, vale a dire l’odierno Lazio con esclusione della sua parte meridionale con le isole ponziane (annessi con il Regno di Napoli)  e della provincia di Rieti (annessa nel 1860 insieme a buona parte dei territori dello Stato Pontificio). Lo Stato Pontificio del Lazio, che ovviamente comprendeva anche Sezze, venne annesso solo nove anni più tardi e precisamente il 20 Settembre 1870 con la Breccia di Porta Pia.Tutte le annessioni dei vecchi Stati al nuovo Regno, avvennero attraverso plebisciti o referendum secondo le regole di casa Savoia, sia per  sancire e giustificare con il consenso popolare annessioni avvenute con le armi, sia per evitare in futuro eventuali contestazioni giuridiche

Il plebiscito di annessione di Roma e del Lazio fu indetto per il 2 Ottobre 1870, a soli dodici giorni dalla presa di Roma. Non tutti i cittadini avevano facoltà di accedere al voto ma solo il ceto abbiente, borghese e nobiliare, quindi ai plebisciti partecipò mediamente  l’1,8% della popolazione. Le masse contadine, quasi del tutto analfabete, ne rimasero fuori Per l’annessione di Roma e del Lazio gli iscritti al voto furono 167.548, i votanti 135.188, i favorevoli 133.681 ed i contrari 1.507. Il quesito plebiscitario era il seguente:  Vogliamo la nostra unione al Regno d'Italia, sotto il governo del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori “;  al quesito si poteva rispondere con  “si” o  “no”. Nonostante il brevissimo tempo intercorso tra la presa di Roma ed il plebiscito, e nonostante la bassissima percentuale degli aventi diritto al voto, vi fu una capillare “campagna elettorale”  in favore del “si”, con tutti i mezzi di comunicazione allora disponibili. Singolare è a tal proposito il mezzo di comunicazione in uso a Sezze tra i “camperi” (1) come ebbe modo di raccontare  mio padre in occasione del centenario dell’Unità d’Italia.

Raccontava che il mio bisnonno Vincenzo Del Duca ed il fratello Ignazio, conosciuto in paese come “Gnazzio  gli’abbate” per la sua figura imponente e per la barba lunga e folta, in un pomeriggio di fine Settembre 1870 tornavano in paese dalla loro lestra (2) nella palude pontina, sita nei pressi del canale Rio Martino tra la Macchia di Bassiano e la Macchia Caserta. I due fratelli, che appartenevano alla categoria agricola dei  “bovari” (3)  andavano a cavallo con i classici abiti da buttero. Sul  cappello avevano appuntato, come tutti i “campéri”di Sezze  in quel particolare momento storico, una targhetta di rame di pregevole fattura  recante la scritta “SI” che i “callarari”(3) setini stavano forgiando e vendendo in grandi quantità per la ”campagna elettorale” di annessione.  C’ è chi dice che i plebisciti ed i loro risultati furono solo una burla, ma come spiegare  a Sezze il forte consenso popolare all’Unità d’Italia ? Al loro seguito, i due Del Duca portavano un asino con una soma di legna da ardere, abbastanza pesante . La povera bestia avanzava piuttosto speditamente, ma attraversando un tratto di palude dal fondo  melmoso, rimase impantanata  senza poter  muovere più le zampe. Ignazio scese da cavallo, appese giacca e cappello ad un ramo, si infilò sotto il ventre dell’asino e aiutandosi con le spalle e le braccia sollevò l’animale con tutta la soma, fino a liberarlo da quel pantano. In quel preciso istante  passarono tre uomini a cavallo il cui abbigliamento non dava adito a dubbi: si trattava di briganti. Incutevano terrore al solo vederli, ma i due fratelli non si scomposero. I briganti indossavano le ciocie ai piedi,  i calzoni di fustagno a gamba, la giubba con il panciotto, il  mantello a ruota ed un cappello a punta alla calabrese, ornato di spille con immagini sacre e con nastri variopinti. Avevano combattuto al soldo di Franceschiello (Francesco II di Borbone) durante l’assedio di Gaeta e, dopo la disfatta, erano tornati alla macchia tra Priverno, Sonnino e Terracina dove ristabilirono il  covo nella ex zona franca, una fascia larga diversi chilometri situata ai confini con l’ex Regno di Napoli. Avere il covo in una zona franca significava avere un riparo sicuro alle loro malefatte, sia che fossero stati inseguiti dalle guardie papaline dello Stato Pontificio, i cosiddetti Cacciatori o Centurioni, sia da quelle borboniche del Regno di Napoli. I briganti, se in quel momento avevano in animo di compiere qualche malefatta ai danni dei due fratelli, impressionati da quella involontaria ostentazione di forza, se ne astennero, anzi non mostrarono affatto intenzioni malvagie  ma solo grande  curiosità per la targhetta con il “si “che avevano notata sui cappelli dei due. Quando fu loro spiegato il significato, il capobanda  rispose:     “ La volemo portà pure nòantri, ma sémo sette, se ce le procurate avete la parola nostra che nessuno oserà più rubarvi il bestiame.”  Così Vincenzo e Ignazio, che avevano diversi beni al sole, per non inimicarseli presero l’impegno che una volta giunti a Sezze, avrebbero reperito le targhette ma le avrebbero consegnate non prima di quattro giorni, quando cioè uno di loro o entrambi sarebbero tornati in palude.I briganti passarono nella lestra dei Del Duca dopo cinque giorni, quando il plebiscito era ormai concluso, ma mostrarono egualmente grande gradimento per quelle targhette, quasi fossero stati degli scudetti della squadra del cuore, e le portarono appuntate al cappello per diversi anni come pure molti “camperi” di  Sezze. Tante le speranze  e  tanta la fiducia riposta nel nuovo Regno!

Note:

1)- I campèri, come dice la parola stessa, erano coloro che coltivavano i campi, spesso servendosi di manodopera e spesso lavorandovi essi stessi come bovari (aravano il terreno con i buoi). Erano gli  antesignani dei moderni imprenditori agricoli. Nell’agro pontino romano venivano anche chiamati “mercanti di campagna”  perché affittavano dai latifondisti intere tenute per la coltivazione dei cereali o per l’allevamento del bestiame e vi praticavano le industrie agrarie (latticini, formaggi, ecc.)

2)- Le ” lestre”  erano  piccoli appezzamenti di terreno all’interno della palude pontina, privi di alberi, recintati e messi al pascolo. Venivano realizzate nelle zone meno depresse della palude e al loro interno, oltre agli animali, si trovavano uno o più gruppi di capanne  ma anche le “logge”,  autentiche palafitte. Nelle capanne abitavano allevatori, pastori, carbonari, pescatori,  “utteri” addetti al bestiame, ecc.  Le “lestre” prendevano  il nome dalla toponomastica dei luoghi ma anche dai loro proprietari ; ad esse si accedeva attraverso lunghi sentieri, all’interno della macchia selvaggia, noti solo a gente pratica della palude.In tempi più recenti per  “lestra” si intendeva anche un raggruppamento o un villaggio di capanne fuori della palude ( es. lestra della Fontana Acquaviva).

3)- I bovari, come già detto, possedevano una o più coppie di buoi per i lavori agricoli, generalmente da aggiogare all’aratro. Sovente avevano alle dipendenze degli operai specializzati in aratura, chiamati “bifolchi”. Una “uetta” di buoi (coppia di buoi maschi castrati aggiogati all’aratro) costituiva  un  grande capitale, paragonabile oggi ad almeno due tir di grosse dimensioni.  Erano, quindi veramente pochi quelli che potevano permettersi  questo mestiere, peraltro molto  ambito,  non solo perché rendeva tantissimo economicamente,ma anche per la stima ed il prestigio che “i bovari” godevano nella società.

4)-  I  “callaràri” o “calderàri” erano artigiani che producevano e riparavano “le callàre” (caldaie),  una sorta di enormi  pentoloni in rame, usate per scaldare l’acqua o per cucinare. I callaràri costruivano  pure  “le stagne”  e  tegami come “ la  sartagna”  e “gli sartagniglio” oltre ai “ conconi ” recipienti in rame usati dalle donne  per prendere l’acqua alle fontane,  ed altri oggetti  in rame come “scolamaregli” (mestoli usati soprattutto per  prelevare l’acqua dai conconi)  bracieri, candelabri, ecc.  Riparavano pure le casseruole in alluminio.  I recipienti di rame, prima di essere adoperati ad  uso alimentare,  dovevano essere “stagnati” cioè rivestiti nella parte interna con uno strato di stagno, altrimenti potevano risultare tossici  a causa della formazione di ossido di rame. Per tale motivo, oltre alle officine dei “callaràri” esistevano  quelle degli “stagnari” o  “stagnini” e numerosi ambulanti zingari che,  periodicamente ma soprattutto in occasione delle fiere, giungevano a Sezze.                                    


                                           SETIA ROMANORUM TEMPORA

                                      (Sezze al tempo dei Romani)

                Il territorio, le risorse e l’alimentazione

                                                  Premessa

Ogni popolo della Terra ha avuto nel passato una propria alimentazione, strettamente legata ai prodotti e alle risorse del territorio che abita. Anche il  palato ha dovuto adattarsi alle diverse realtà  e così, alcuni popoli trovano appetibili, alimenti che per altri possono sembrare disgustosi;  infatti il gusto del buono o del cattivo non è una caratteristica innata dell’uomo, ma si è sviluppato secondo le risorse e le culture delle diverse regioni. L’alimentazione inoltre, cambia con il trascorrere del tempo; quella dei nostri padri non può essere la stessa di oggi sia perché molti  alimenti erano allora sconosciuti, in quanto importati in periodi successivi sia per la creazione di nuovi piatti che corrispondono a ricette e sapori internazionali, diffusi ormai ovunque con il mercato globale. Di converso, i nostri antenati conoscevano alimenti che oggi non sono più in uso perché superati dai tempi e perché provenienti da specie vegetali autoctone estinte o in via di estinzione. Essendo l’antica Setia una colonia di Roma e trovandosi per di più a breve distanza da questa, possiamo desumere con assoluta certezza che ne abbia subito l’influenza culturale ed economica, più di qualsiasi altra parte dell’Impero. Ciò è confermato dalle scarse e spesso controverse fonti storiche, dai reperti archeologici ma soprattutto dalle tradizioni locali e dagli usi e costumi pervenuti fino ai giorni nostri,che sono comuni con quelli della Capitale.

1-   Paesaggio di Setia

Fatta questa premessa, facciamo un salto virtuale nel passato, nella colonia romana di Setia (Sezze). Siamo nel 160 d.C,  e il paesaggio che appare ai nostri occhi è completamente diverso da come lo conosciamo, quasi irreale  e magico nella sua bellezza, tanto che se non fosse per la conformazione geofisica dei luoghi, il nostro senso di smarrimento sarebbe totale. Decidiamo di conoscere i luoghi e farci accompagnare in questo viaggio da un importante personaggio di nome Asclepiades o come lo chiamano in molti, Asclepio (1), inviato a Setia, in qualità di medico e prefetto, dall’imperatore Antonino Pio, nel II secolo d.C.  Sotto la sua prefettura avviene il martirio della “giovanetta setina Santa Parasceve” (2); egli vive qui da più di quindici anni, pertanto è anche un buon conoscitore dei luoghi, degli usi e dei costumi. Lo troviamo nella Basilica, dove si amministra la giustizia, e il sito ci sembra coincidere con quello dell’attuale Monastero del Bambin Gesù;  infatti a poca distanza da questa, laddove il decumano (l’attuale Via S. Carlo) incrocia il cardo della città (Via Roma),  c’è il Foro, (l’Arringo),  così come avviene in tutti gli impianti urbanistici romani.  Dopo avergli spiegato i motivi del nostro viaggio, Asclepio ci invita a seguirlo in strada, da dove, attraverso una breve e lieve discesa,  giungiamo alla Curia del Senato, che ravvisiamo  adiacente all’attuale Porta Romana o Porta di Piano, nel luogo chiamato dal popolo, sino al secolo scorso, con il nome di Sgurla (storpiatura dialettale  del termine latino “senatus curia”). Alla Curia si accede attraverso un magnifico terrazzo addossato ad un solidissimo muro di pietre molto grosse prive di malta e di forma geometrica regolare (3).  Questo terrazzo ha una stupenda copertura a volte sorretta  da colonnati ed un pavimento in raffinato mosaico, raffigurante azioni di guerra. Vi si gode una bellissima vista sulle Paludi Pontine e quindi  del territorio inferiore di Setia.

Ruderi della curia e dell'erario pubblico

 - Ecco - ci addita Asclepio - questo è il Pomptinus Ager! (4)   - All’estremità di quei monti, che degradano verso il mare nostrum e alle cui pendici si trova Anxur, (5) è il confine a sud ovest, che coincide con quello di questa immensa palude, la quale a sud sembra  un tutt’uno con il mare e con il promontorio di Circellum (Circeo).  Ad ovest, la palude termina nei pressi di quella grande e folta distesa di macchia (6), ma l’Agro Pontino finisce più in là, dopo il porto di Antium (Anzio) e innanzi ai colli Albani. C’è  qualcosa, come una linea retta che lo attraversa e vista da qui, sembra un lungo filare di  pini o un argine alla palude che corre da  Tripontium (7) verso  Anxur, in realtà è la Via Appia, la più importante arteria che i Romani abbiano mai costruita, tanto da definirla Regina Viarum. Questa strada fu lastricata da Appio Claudio il Censore, sessanta anni dopo la fondazione della colonia romana di Setia, per far transitare le legioni romane verso l’oriente, ma pensate a quanti benefici ha portato al commercio e all’economia del nostro centro, in un territorio che in precedenza era isolato e completamente privo di lunghi collegamenti. Infatti, questo tratto della via Appia che attraversa il Pomptinus Ager  è il più antico, e collega  Roma con Capua, mentre l’altro tratto, che conduce al porto di Brindisi , fu costruito in tempi successivi da persona rimasta sconosciuta. Lungo tale via, a partire da Tripontium, vi sono altre due importanti stazioni di sosta e di cambio dei cavalli; la più vicina a noi è Forum Appi (8) mentre più in là, verso Anxur, si trova  Ad Medias,(9) così chiamata perché posta esattamente a metà del Decennovium, cioè di quel  tratto di strada lungo diciannove miglia che va dal Foro fino a Terracina e basolato  da Traiano pochi decenni  fa. Foro Appio non è solo una semplice stazione di sosta ma anche un importante centro di insediamento con funzioni aggregative della popolazione rurale ed essendo ubicato alla confluenza di due corsi d’acqua dispone di un porto fluviale (10) per i trasporti verso Tarracina, tramite barche trainate a terra da cavalli, ed è anche un passaggio obbligato per le piccole imbarcazioni, i sandali, che giornalmente trasportano i prodotti della palude verso le “terre alte,” a ridosso degli Archi di S. Lidano. La popolazione rurale vi si reca per ogni genere di affari (mercati, trasporti,leva, commerci, ecc) ma è pure un punto d’incontro per feste religiose. Vi è stata eretta, in onore di Traiano, la statua della dea Bellona(11) ed è collegato, a mezzo di un  tratturo, al vicino Tempio della Dea Giunone, (12) meta di culto per invocare  fertilità alle nostre terre e raccolti abbondanti. Quei vigneti, che si intravvedono dal Foro sino ai piedi della nostra collina, passando a ridosso del “Fosso delle Uve Nere “ ( Fosso Veniero) (13) sono quelli del famoso caecubo setino e appartengono alla villa della  gens Calpurnia. Questi vitigni sono una specie autoctona, che ha trovato terreno fertile e condizioni ideali lungo questo fosso e ai piedi del monte; i filari sono normalmente posti  ad intervalli di un passus, (14) ma  ne esistono alcuni a distanze di cinque o sei pertiche (15), tra i quali ci si può seminare di tutto: farro, orzo, biade, favino, lenticchie, ortaggi, ecc. Ad ovest, al di qua della Via Appia, oltre quegli estesi vigneti e pascoli di bestiame allo stato brado, si scorge il basolato dell’antichissima Via Setina, con pietre ancora più grandi di quelle della Via Appia. La via Setina, inizia la sua discesa dal paese dalla porta Saturnina e dopo alcuni ripidi tornanti tra piante di ulivi e di mandorlo, attraversa la pianura sottostante in direzione ovest fino ad incrociare alcuni pantani ed un antico canale navigabile, che supera a mezzo di un magnifico ponte a tre Archi (16)  raggiungendo  Foro Appio, dal quale piega per Tres Tabernae ,(altra stazione di sosta della via Appia nei pressi di Cisterna di Latina) fino   ai colli Albani, dove i setini, ad iniziare dal IV secolo a.C, si recavano per le riunioni con gli altri confederati della Lega Latina (17). Ai piedi dei nostri monti, lungo l’antica via volsca che da Roma conduce a Terracina, sono adagiate alcune ville, come quella della gens Antonia (18) alle falde del monte Antignano,che a ricordo di questa potente famiglia ne conserva il nome, come pure tutta la stupenda piana superiore (l’Antignana). Poco distante dal punto in cui la via Setina inizia la salita per il paese è il sito della Villa di Mecenate, alter ego di Augusto e protettore dei letterati, che nella sua estensione in  pianura, tra pascoli e campi coltivati, comprende le sorgenti della  Fontana delle Acquevive (19).

Rudere Setino

Procedendo ancora  nel nostro percorso verso est, ai piedi del Monte Trevi, troviamo, tra  ulivi, vigne ed orti,  l’imponente e maestoso Palatium di Cesare Augusto (20), che scelse questo sito per la bontà del vino  setino, in quanto salutare per il suo stomaco. Oltre le Terme Augustee è situata la villa della gens Vitillia  (21), in prossimità della quale, ai piedi del monte, sgorgano le grandi sorgenti di acqua che danno origine all’antichissimo e mitologico fiume Ufente.  Questo  dirige a sud est, verso Tarracina, per trovare il suo sbocco naturale al mare, ma dopo qualche miglio dall’origine, nell’attraversare una vasta depressione del terreno che discende sotto il livello del mare, nel periodo delle piogge straripa, originando la parte sud est delle Paludi Pontine. Dalle coste di Tarracina alla Macchia Caserta, si trova la parte più estesa della Palude, quella che, con le piogge d’autunno, avanza fino ad invadere la Via Appia e le terre poste a monte di questa, specie ad est di Foro Appio e fin oltre  Mesa. Le cosiddette “terre alte,” quelle mai raggiunte dalla palude, sono attraversate da lunghi e tortuosi tratturi, alcuni dei quali discendono ripidi dalle coste del paese, tra  uliveti, ciuffi di stramma (22) e ginestre; essi  vengono percorsi dalla transumanza proveniente oltre che dai Lepini, anche dagli Aurunci e dagli Ausoni, che qui possono trovare buoni ed abbondanti pascoli.-

Note

(1)- In località Piagge Marine, dopo aver attraversato la parte ad est dell’anfiteatro, su di un masso isolato alto m. 4,55, si trova, in riquadro, l’iscrizione sepolcrale, corrosa del tempo, che ricorda C.Licinius Asclepiades Medicus, conosciuto anche sotto il nome di Asclepia,medico e prefetto. Il luogo del sepolcro, al tempo del Lombardini, (c.f.r.- Storia di Sezze- pag. 37), veniva chiamato pietra del tesoro forse perché “la tomba devastata e frugata abbia accreditata la credenza, o per l’iscrizione, che per il volgo ha un significato arcano”. Dice inoltre il Lombardini: “questo eccentrico Asclepiade,senza tema di errare, ritengo sia esistito ai tempi di Antonino Pio, nei quali a ciascuna città fu addetto un maggiore o minor numero di medici secondo il bisogno, eletti e stipendiati dalla città stessa.”  In altre fonti (vedasi nota 2) lo troviamo come prefetto della “città” in cui avvenne il martirio di S. Parasceve, senza però alcuna precisazione sul nome della città.

2) – Il Lombardini definisce “giovanetta setina” Santa Parasceve, riferendosi a quanto riportato da bollandisti e scrittori degli atti dei martiri cristiani, che hanno scritto molti secoli dopo il martirio. Non c’è nulla però che possa far affermare con certezza che Santa Parasceve fosse setina (infatti nacque a Roma). Di essa si sa che proveniva da una ricca famiglia romana e che, abbracciata la fede cristiana, donò tutti i suoi averi ai poveri. Non si conosce se la famiglia di Santa Parasceve avesse posseduto dei beni anche a Sezze. Per le sue predicazioni, subì il martirio a Roma su ordine dell’imperatore Antonino Pio, che però non sortì alcun effetto a causa dei prodigi della santa, nonostante i mezzi più atroci. Nelle more delle sue predicazioni,giunse “in una città” (Sezze ?) dove era prefetto un certo Asclepia o Asclepiades, che nuovamente la condannò al martirio,e conoscendo la sua “invulnerabilità”, la fece condurre in una grotta dove esisteva un terribile drago,(forse nella località pietra del tesoro,dove Asclepio fu sepolto) ma la santa, con un “piccolo segno” ( di croce), riuscì a far spaccare la bestia in due parti. A seguito di tale episodio, Asclepio si converte alla religione cristiana e fu da questa battezzato, ma Parasceve continuò le sue predicazioni e giunge ancora “in altra città”, governata da un “tale Taresio”, che la fece decapitare per aver ingiuriato Apollo davanti al suo tempio; su questo  i cristiani eressero in seguito la chiesa ad essa dedicata. Le coincidenze, come la presenza a Sezze di un personaggio di nome Asclepio  e la chiesa di S. Parasceve costruita sul tempio di Apollo, e altre leggende sulla figura della santa, hanno accreditato l’ipotesi, che l’altra città fosse Sezze.

(3) – c.f.r.  Vincenzo Tufo– Storia antica di Sezze—1906

(4) – L’ Agro Pontino. Alcuni storici ne fanno derivare il nome da “Pontus” (mare o distesa di acqua), altri dal territorio dell’antichissima città volsca “Suessa Pometia” (ager pometinus) la cui ubicazione, peraltro, è stata sempre incerta. Il prof. Tufo, nella Storia antica di Sezze, scrive però che il termine pometinus o pomentinus  nel significato di “marittimo” non è mai stato usato dagli scrittori antichi. Secondo Raffaele Castrichino, storico e filologo di Minturno, (nella collana MONUMENTA AURUNCORUM HISTORICA) la denominazione romana di Pomptinus deriverebbe dal greco pèmpte (quinta). Infatti  per i greci, nell’orientamento durante la navigazione, la costa paludosa  era  “ limne metà tèn pèmpten,” cioè si trovava dopo la quinta isola del gruppo delle Ponziane, più precisamente dopo Ponza, Zannone, Palmarola,Ventotene,Santo Stefano. L’errore degli studiosi sarebbe stato dunque, secondo Castrichino, quello di fermarsi al latino Pomptinus, come se prima dei Romani non fosse esistita né pianura, né palude né nome.

5) – Terracina, anticamente si chiamava Anxur, per l’esistenza del tempio dedicato a Giove Anxur. Successivamente divenne “Tarracina.”

(6) –  La macchia Caserta era la denominazione del bosco situato al confine ovest della Palude Pontina.

(7) – Tripontium era  il luogo ora chiamato Tre Ponti  (Latina), una stazione di sosta e di cambio dei cavalli sulla via Appia

 (8) – Foro Appio

(9) – Con il termine latino “ad medias” si intende “alla metà”. Attualmente, questo luogo sulla Via Appia, si chiama Mesa di Pontinia. Prima della bonifica integrale e  della fondazione della città di Pontinia, questa località apparteneva al territorio del Comune di Sezze.

(10)- Orazio vi fece sosta nel 37 a.C. e nelle Satire descrive il porto e uno spaccato di vita nel Foro

(11) – La dea Bellona era una dea guerriera, l’ombra femminile di Marte. Il suo nome deriva da bellum (guerra). A Foro Appio fu rinvenuta un iscrizione traianea, (CIL X , 6482)  che ricorda la dedica di un tempio a Bellona in onore di Traiano, da parte di Geminia Myrtis e Anicia Prisca. Le due donne sono madre e figlia delle illustri gens Geminia e gens Anicia  attestate a Sezze, Cori e Terracina; la loro parentela si desume da altra epigrafe (CIL X, 6483) rinvenuta poco distante, nei pressi del casale della famiglia Pietrosanti a Villafranca (già proprietà Rappini), con la quale, anni dopo, dedicarono un aedem cultoribus Jovis Axorani (tempio per la venerazione di Giove) in onore di Adriano e in memoria di Anici Prisci c/oniugis (coniuge e padre)

(12) – E’ il tratturo Caniò, dove negli ani 80 sono venuti alla luce, in seguito a lavori agricoli, i resti del tempio di Giunone.. Oggi a tale tratturo vi si accede dalla  Via Murillo,  nei pressi degli Archi di S. Lidano

(13) -  La denominazione Fosso Venièro o Fosso Venereo  deriva dalla storpiatura dialettale di Fosso delle Uve Nere. Nell' Ottocento, sul ciglio di questo fosso, furono trovati per caso alcuni vitigni di queste uve nere che crescevano spontaneamente ( ne fa menzione il Lombardini nella sua Storia di Sezze). Furono recuperati e tuttora sembra che più di qualche concittadino ne conservi la specie. Sulla presenze di queste uve a ridosso del fosso Veniero, ne parla Plinio allorchè fa menzione della villa della gens Calpurnia e dice che si sarebbe trovata supra forum appi ove nascitur vinum setinum.La tradizione popolare ha confermato quanto scritto da Plinio. chiamando fino a tutto l'Ottocento Pantano Luvenere (Pantano delle uve nere), una località vicina a Foro Appio e al fosso Veniero, che era attraversata dalla via Setina. Da queste storpiature dialettali non è stato risparmiato neanche il nome stesso del Foro Appio, che veniva chiamato dal popolo " Frappio".

(14) – Un passus  romano corrisponde a m. 1,48.  Anche oggi i  pochi vigneti  a filari, rispettano questa misura.

(15) – Una pertica corrisponde a mt 2,96

(16) – Sono gli Archi di S.Lidano, ritenuti dal prof. V. Tufo (Storia antica di Sezze), come un possibile riparo per i viandanti della via Setina, che vi sarebbe passata adiacente. Secondo altri storici locali , gli Archi sarebbero stati un ponte a tre luci che avrebbe permesso a questa via di superare un antico fiume che dirigeva al Foro Appio, probabilmente il Cavata (il cui corso fu deviato dalle successive bonifiche del territorio). Resta difficile confutare quanto scritto dal prof. Tufo, perché la struttura è stata realizzata con pietre di dimensione ciclopica, quindi destinate a supportare forti carichi, quale poteva essere una sede stradale o la struttura di un palazzo, non certo un semplice riparo per viandanti. Se gli Archi di S. Lidano invece, come dicono i più, sono stati un ponte su cui passava l’antica Via Setina (lo farebbe pensare la loro larghezza che è la stessa della carreggiata di questa strada, m. 5,16), tale ponte, data la sua altezza rispetto al livello del terreno circostante,dovette servire a valicare, non un canale qualsiasi, ma uno navigabile a mezzo di piccole imbarcazioni, forse ” i sandali,” per i trasporti via fiume di legnami ed altri prodotti della palude, provenienti dal porto fluviale di Foro Appio e destinati ai centri collinari. Questa antica via d’acqua, unitamente ad altri fiumi a monte degli Archi, deve aver dato luogo in questo punto  a frequenti esondazioni, da cui originavano estesi pantani, ed a confermarlo è il fatto che la località immediatamente a Nord Est degli Archi di S.Lidano, sino allo stradone dell’Arnarello, (dove secondo alcuni sarebbe passata la via setina) viene  ancora oggi  conosciuta  come Le Pantanelle, nonostante nessuno, a memoria d'uomo ne ricordi i pantani. Inoltre quando S. Lidano , nel 956, costruì  nei dintorni degli Archi la sua abbazia, ancor prima di porre la prima pietra, dovette  bonificare il territorio circostante perché paludoso (dal codice della  Leggenda medioevale di Lidano D’Antena, conservata nell’archivio della Cattedrale di S. Maria), non certo a causa della Palude vera e propria, perchè i luoghi erano e sono tuttora ad un’altitudine di oltre m.6 sul livello del mare,troppo alti per poter essere raggiunti dalle acque. Appare dunque più verosimile che si trattasse di estesi pantani formati dalle esondazioni dei fiumi e questo, trovererebbe conferma in tempi successivi, quando nelle contese per questioni di confini  tra Sezze e Sermoneta, i sermonetani per allontanare le acque dal loro territorio, trovavano molto semplice rompere gli argini dei fiumi  situati a nord- ovest degli Archi di S. Lidano, per deviarle sul territorio di Sezze. In prossimità degli Archi inoltre, si diparte una strada, il cui nome, Via del Pesce, ricorda le acque e gli stagni della zona stracolmi di pesci, tra i quali non è da escludere la trota di Ninfa, un pesciolino ormai estinto, che trovava il suo habitat naturale proprio nelle acque basse. Da ciò ne consegue che, se l’antica via Setina dovette attraversare questi luoghi, e sembra non esserci alcun dubbio, l’unico modo per poterlo fare, senza disturbare la navigazione del canale e nello stesso tempo rialzarsi dai pantani circostanti, era quello di un“cavalcavia” che salisse dolcemente su questo ponte a tre archi (quello di centro infatti è il più alto) per poi ridiscenderne in direzione di Foro Appio..

(17)- Come riferisce il cardinale Corradini nella sua opera “De civitate et ecclesia setina” del 1702, il percorso della Via Setina iniziava da Roma e, secondo alcuni (Publio Vittore e Panvinio) immetteva nell’Appia con un diverticolo per Sezze nei pressi di Foro Appio, secondo altri avrebbe avuto invece un percorso del tutto autonomo. 

(18)- Della gens Antonia, il personaggio più illustre fu Marco Antonio, il triumviro rivale di Ottaviano, perdutosi appresso a Cleopatra. La moglie di Marco Antonio, Fulvia, appartenne alla gens Fulvia e tracce di questa famiglia si sono ritrovate a Sezze con l’iscrizione FOUL..FOUL (C.I.L.F.A.  910) presso il Tempio di Ercole (ora Chiesa di S. Pietro)

(19)- In queste antiche sorgenti, sino ai primi anni 60, l’acqua sgorgava naturalmente e vi si conducevano gli animali per l’abbeveraggio. Erano altresì un punto di ristoro per i contadini nelle pause di lavoro, ma anche di passeggiate fuori porta per fare “pane nfusso” con olive e cipolle. In queste sorgenti, durante la bonifica integrale, vi fu costruito  dal Consorzio della Bonifica Pontina un magnifico fontanile con abbeveratoio (nell’anno XII del ventennio fascista, come ricorda una incisione epigrafica posta a lato) e così pure in altre parti del territorio setino, ad es. il Pozzo di Cantèro (nella località omonima sulla migliara quarantacinque) o quello di Casal Bruciato (sulla migliara quarantasette). Esistevano poi, in altre località della pianura, pozzi di acqua sorgiva ancora più antichi, che prendevano il nome dalle proprietà su cui insistevano, come il Pozzo Maselli all’incrocio tra via Archi e Via Torricella o il Pozzo Ficarotto all’incrocio tra Via Murillo e Via Nova. I manufatti di questi fontanili sono stati ormai tutti demoliti, perché le sorgenti si esurirono negli anni sessanta a causa dell’abbassarsi delle falde acquifere, conseguente  alle numerose perforazioni di pozzi per usi irrigui e domestici. L’unico fontanile rimasto nel campo setino, seppure a secco, è proprio quello della Fontana delle Acquevive, grazie al restauro e alla costante opera di manutenzione del sottoscritto, per trovarsi adiacente alla propria azienda agricola. In tale sorgente furono rinvenuti nel secolo scorso avanzi di mosaico, di condotti per l’acqua e casse mortuarie a mattoni di epoca romana. E’ perciò verosimile l’ipotesi avanzata da più parti, sull’esistenza in loco di antichissime terme, probabilmente appartenute alla villa di Mecenate che, era solito costruirla vicino al palatium ( palazzo) dell’imperatore Augusto.

(20)- I ruderi sono oggi conosciuti con la denominazione Le Grotte. A Roma il Palatium era solo il Palatino, ma dopo che Augusto e i suoi successori vi portarono la corte, divenne anche il Palazzo imperiale.  Il Palatium era quindi esclusivamente la casa dell’imperatore e non di altri. Se tutta la località prospiciente Le Grotte viene ancora oggi conosciuta come contrada “Palazzo”, ciò è dovuto sicuramente all’antica presenza nel luogo del Palatium dell’imperatore.

(21) –Il Tufo, nella sua storia antica di Sezze, riferendosi a quanto già scritto dal cardinale Corradini, dice che presso alcune mura diroccate, finito di atterrare con la costruzione della ferrovia esisteva nel Quarto Palazzo una strada dal nome Vitiglio .Prima esisteva la contrada Vitilli, che anteriormente si sarebbe addirittura chiamata Vitellia. Ciò avvalorerebbe l’ipotesi di una villa della gens Vitellia, alla quale appartenne, com’è noto, l’imperatore A. Vitellio, famoso solo per le sue gozzoviglie.

(22)- La stramma è una pianta di tipo perenne della famiglia delle graminacee che cresce spontanea in tutte le colline mediterranee. In italiano si chiama ampelodesma, ed è anche conosciuta col nome generico di sparto o anche tagliamani, per via delle foglie taglienti che possono ferire le mani , se presa sconsideratamente. Il nome scientifico della  pianta è Ampelodesmos tenax Link, dove Ampelodesmos  significa “legame per viti”, tenax sta viti per tenace a causa della sua resistenza e Link è lo studioso che nel 1827 ristabilì il nome classico di Ampelodesmos. In passato veniva usata per legare i tralci delle viti e dava anche vita  a prodotti artigianali: si usava per farne cesti, impagliature per sedie, gerle per somari, corde, ecc. Un uso importante  della stramma, sotto forma di piccoli fasci legati ad un capo,chiamati uranghe era quello della copertura per capanne, capannoni in uso da pastori e agricoltori, sino agli anni 50 del secolo appena trascorso: le cosiddette capanne di stramma.Con la stramma si legavano pure le piante di insalata riccia e scarola per  ottenerne lo schiarimento o imbianchimento del cuore; gli operai preposti a tale compito erano chiamati legarini.

2 - I  prodotti della palude e del territorio - Il pane e il vino setino.

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"E' il padre Giove, lui stesso, che ha voluto così difficile la via del coltivare, e per primo fece smuovere con arte la terra dei campi, aguzzando con le preoccupazioni i pensieri dei mortali, per impedire che il suo regno restasse addormentato in un pesante torpore d'inerzia. Prima di Giove, nessun colono lavorava i campi; neppure segnare terreni o dividerli con un confine era permesso; i beni acquistati andavano in comune, e la terra, da sola, recava tutto più generosamente, senza bisogno di chiedere." - Virgilio (Georgiche)

-La palude - continua Asclepio - non rappresenta  una calamità per la popolazione, anzi da questa ottiene numerosi prodotti che alimentano attività e mestieri, fonti di vita e di ricchezza per chi ha la forza e il coraggio di affrontare questo ambiente, in cui il rischio mortale di contrarre le febbri palustri e la malaria è sempre in agguato. Attraverso le numerose vie d’acqua vengono infatti trasportati alle terre alte e da qui nei centri collinari: legname, carbone, ghiande, cortecce di sugheri, giunchi, canne palustri, paglia e ogni genere di cacciagione (cinghiali, cerbiatti, fagiani, anatre, gallinelle acquatiche, lepri, tordi, ecc)  (23) ma anche rane, anguille e una ricca varietà di pesci, tra cui la trota di ninfa, oggi quasi completamente estinta. Dalle interiora dei pesci e forse anche delle rane, dopo averle miscelate con erbe aromatiche e messe sotto sale a fermentare al sole, si ricava il garum, una salsa di uso giornaliero per il condimento di molte pietanze. Nelle paludi vivono specie tipiche di uccelli come il cavaliere d'Italia, il cigno nero dal becco rosso, la starnazza, gli aironi. Le zone libere dalle acque sono occupate da foreste inestricabili di querce da sughero, pioppi, lecci e pino  e sono chiamate "selve" come la Selva di Terracina, la Selva del Circeo, la Selva della Macchia Caserta.     Un mestiere insolito nella palude  è quello del “mignattaro,” pescatore di mignatte (sanguisughe), prezioso alleato del medico, ogni volta che necessita un salasso; questi entra nelle acque stagnanti armato di un bastone per agitare l'acqua e di un sacchetto in cui ripone le mignatte, indossando delle brache di tela robusta, per non farsi ferire dalla bocca a ventosa di questi animaletti vermiformi. L’avanzare della palude, con le piogge autunnali e il successivo ritirarsi, conferisce fertilità ai terreni  attraverso il limo depositato, esattamente come avviene in maggior misura in Egitto con lo straripamento del Nilo. Infatti, sin dai tempi dei Re, i Romani furono attratti dalla feracità di queste terre che producevano in gran quantità prodotti cerealicoli ed ortofrutticoli, oltre a sconfinati pascoli per l’allevamento del bestiame. Silla divise i nostri campi tra suoi soldati e Cesare li donò ai suoi legionari. Sezze, per la scarsità di abitanti, fu più volte costretta a chiedere coloni a Roma per coltivare i terreni e Plinio afferma che nei nostri campi Cerere e Bacco gareggiavano insieme. Cicerone (106 – 43 a.C.) nelle sue Verrine chiamò il nostro campo fertilissimum e Dionigi  (60 a.C.- 8 d.C.) lo definì horreum et penuarium romanorum (granaio di Roma). Non è a caso che i nostri campi meritarono questi appellativi: essi rifornirono continuamente di frumento l’antica Roma, specie nei periodi in cui ne aveva maggiormente bisogno. Nella guerra dei Romani contro Porsenna (507 a.C.) furono inviati a Setia i consoli Larzio Spurio ed Erminio Tito perché comprassero grano. Nel 494 a. C. quando i plebei (secessione della plebe) abbandonato il lavoro si ritirarono sul M. Sacro, furono ancora i nostri campi a rifornire l’annona di cereali. Lo stesso dicasi al tempo della peste. Da questi grani, inizialmente si ricavava un tipo di polenta di largo consumo chiamato puls o pulmentus, farcita di uova, olive e formaggio fresco acido ( il mais non era ancora conosciuto, fu introdotto in Europa con la scoperta dell’America). Il pane vero e proprio sembra divenuto di uso generale a partire dal II° secolo a.C, sebbene il grano tenero fosse già conosciuto due secoli prima; di esso se ne conoscono tre tipi principali: il cibarius, pane scuro e poco costoso consumato dai poveri, il secondarius, fatto con farina integrale, migliore del precedente, più bianco ma non finissimo ed il candidus o mundus fatto con farina finissima consumato dai ricchi. Esisteva  anche un pane fatto con la crusca, il pan da cani o furfureus,per i più poveri. La vocazione cerealicola del territorio di Sezze ha fatto sì che il pane entrasse nella cultura contadina dei  suoi abitanti ancora prima di altri; il drammaturgo setino Caio Titinio, (170 a.C) in un piccolo frammento dell’opera dedicata alla sua città, preservato dal grammatico Nonio Marcello, ci descrive la cura e l’amore delle donne di Sezze nella preparazione del pane. Due secoli dopo, questa tradizione viene confermata da un altro illustre concittadino, Caio Valerio Flacco, che in un frammento delle  “Argonautica”,  descrive l’insuperabilità delle donne setine nell’allevare i figli e nel fare il pane. -   Alla luce di queste fonti, dunque, Sezze può vantare con assoluta certezza una tradizione nell’arte panificatoria di oltre duemila anni.             

- Che dire poi dell’antico e rinomato vino setino? Plinio ci tramanda che fu preferito da Augusto e da quasi tutti gli imperatori a lui succeduti, perché l’esperienza aveva confermato come agisse da potente digestivo. Le sue lodi furono cantate anche da Giovenale, Stazio, Strabone e Plutarco; ma chi ne parla assai diffusamente fu Marziale che consigliava di berlo freddo, unito alla neve. Plutarco ricorda che nel banchetto di Silla ai veterani e al popolo, dopo le guerre civili, si distribuì il vino setino vecchio di 40 anni. Da questi autori si desume che il vino traesse la sua bontà dalle terre setine e dall’uso di essere invecchiato per molti decenni nelle botti, sulle quali veniva inciso  il tempo e il luogo in cui le uve erano state raccolte. Il vino setino, prima dell'età imperiale, ebbe una ragguardevole esportazione non solo verso Roma ma anche fuori dai confini italici. Infatti da Foro Appio, tramite la via fluviale parallela  all’Appia,  detta fossa Cetega (scavata da P. Cornelio Cetego), il vino veniva condotto al porto di Terracina dove, caricato sulle navi raggiungeva tutti gli angoli del mediterraneo occidentale, particolarmente la Francia, come pure quello di Terracina. (24) -

Nel territorio di Setia si producono  legumi (fave, ceci, lenticchie, lupini) ed ortaggi (insalate, ruchetta, broccoletti (25), rape, farzarape (26), cavoli, carciofi (27),  broccoli bianchi  (28) cipolle, porri ed anche asparagi del tipo selvatico di montagna  ma non sono conosciuti i fagioli, le patate, le melanzane e i pomodori. Di frutta se ne trova in abbondanza, e ce n’è in tutte le stagioni: uva, fichi, mele cotogne, prugne, pere, albicocche, ciliegie, visciole, sorbi, corbezzoli, more, meloni, ma anche frutta secca come noci, nocciole, mandorle, pinoli e castagne. Diffusissimi gli alberi di ulivo, soprattutto sulla collina e ai piedi dei monti. Le pesche sono state portate dai Romani dalla Persia, nel tardo impero (le persica). Tra i prodotti dell’allevamento e della pastorizia primeggia il latte, soprattutto di pecora o di capra e numerosi sono i formaggi disponibili, specie il pecorino; non si usa mangiare la carne di cavallo e pochissimo quella bovina, preferendovi il maiale, il pollo, le anatre, i piccioni e la cacciagione, mentre il tacchino resterà sconosciuto per molto tempo ancora. Fino al III secolo a.C. era proibito mangiare la carne vaccina, perché i bovini dovevano servire esclusivamente per arare e per farne sacrificio agli dei. Una vera golosità sono le lumache, reperibili ovunque nel territorio: negli orti, lungo i fossi, in montagna, ma c’è una località  particolare nel campo setino, dove queste dovettero essere veramente assai numerose: è quella che la tradizione popolare ancora oggi chiama La Ciammarucara (nei pressi dell’incrocio tra la S.R. 156 dei Monti Lepini e Via Murillo). Diffusissimi gli alveari, al pari delle piante di ginestra, dai cui fiori le api producono il dolcificante più conosciuto ed  apprezzato ed anche il più  caro: il miele. In sua sostituzione, i poveri usano il più economico bollito di fichi sia secchi che freschi e quello del mosto di vino cecubo.

Note:

(23)- La caccia ai palmipedi della palude era fatta con la lacciola, un cappio fatto con crine di cavallo quasi invisibile. Tra i palmipedi cacciati annoveriamo il cucchiarone o mestolone, il germano reale, la garganella, la folaga, l’oca cinerina e marzolina.  Tra i trampolieri:  la cicogna,il beccaccino o pizzarda, la beccaccia, l’airone e la pavoncella.Tra i passeracei: le allodole, il “sordiglio”, il fringuello, i tordi, la calandra o allodola con il ciuffo chiamata in dialetto ”cifra”, gli storni, ” i strigliozzo”, e la ballerina chiamata in dialetto “ codanzinzera”

(24)- c.f.r. Filippo Coarelli- Atti del convegno “La valle Pontina nell’antichità”- Cori 13-14 aprile 1985,  Consorzio Biblioteche    Monti Lepini  

(25)- E’ difficile dire, per mancanza di fonti, se fossero i broccoletti sezzesi ,che tanto apprezziamo oggi, ma è vero però che questa è una varietà locale autoctona, tipica degli orti della fascia collinare lepina, pressocchè sconosciuta in altre parti della penisola.

(26)- Le farzarape (false rape) degli orti di Sezze  è una varietà locale di colza. 

(27)- L’origine del carciofo è avvolta in un alone di mistero che le ricerche non sono riuscite ancora  del tutto a dissolvere. Alcuni autori farebbero risalire l’inizio della coltivazione del carciofo nel Lazio al tempo degli Etruschi. Secondo il mio  ex professore di Geobotanica alla Sapienza di Roma, il compianto Giuliano Montelucci  (cfr  Pignatti S.), il carciofo sarebbe originario del bacino occidentale del Mediterraneo, essendo sconosciuto ad Egizi ed Ebrei, mentre fu noto agli Etruschi in quanto, in alcune tombe della necropoli  di Tarquinia, sono state trovate raffigurazioni di foglie di carciofo, dipinte sulle pareti. Tale autore, attribuisce l’opera di addomesticamento della specie “carciofo romanesco” proprio agli Etruschi. Le diffuse coltivazioni tra Civitavecchia e Tolfa sino alle vicinanze di Cerveteri e con le estreme propaggini  a Sezze e Priverno, avvalorerebbero tali ipotesi.Le prime notizie della diffusione a Sezze  risalirebbero a quando l’antica Setia fu trasformata in avamposto dai Romani, e  di ciò ne fanno menzione Teofrasto (Historia plantarum), Plinio il Vecchio (Naturalis Historia) e Columella (De rustica).

(28)- I più anziani ricordano che fino ai primi decenni del secolo appena trascorso, negli orti di Sezze veniva coltivata un’antichissima specie autoctona di broccolo bianco, tipo cavolfiore, con corimbo non molto grande e del peso medio di circa 500 – 600 gr. Ogni anno, da epoche remote, si lasciavano alcune piante per i semi dell’anno successivo, ma un mercato sempre più esigente e la necessità di una maggiore produttività, ne hanno decretata l’estinzione. E’ stato un vero peccato perché chi ha avuto modo di apprezzarlo, ha raccontato che era impareggiabile, al pari dei broccoletti di Sezze.

3- In giro per Setia tra case e botteghe

Asclepio ha un aspetto rude ma è persona colta e amabile; intuendo la nostra curiosità, rinuncia,cosa del tutto insolita,al quotidiano bagno termale e si offre di accompagnarci in giro per le strade di Setia, fino a raggiungere la sua domus (casa). Così scendendo da Porta Romana verso la Via Setina, abbiamo modo di ammirare l’Anfiteatro dove, ci racconta Asclepio, ostaggi cartaginesi con una rivolta fallita, tentarono di assalire i setini intenti  ai giochi; più innanzi, alla nostra destra, il Tempio di Marte, luogo di culto con  sacerdoti salii (29) e ancora oltre, a sinistra, il Tempio di Saturno con la porta dell’antica Via Setina. Notiamo che la città, nella sua espansione, ha sconfinato le antiche mura pelasgiche e si estende in pendenza verso l’antica Via Setina, esattamente nei luoghi che stiamo attraversando, tanto da dare a Marziale l’impressione di  una paendula Setia (Sezze in pendenza). Dopo qualche centinaio di passi, la strada piega in direzione est, e mentre risaliamo non possiamo non notare alla nostra sinistra una parte della  ridente vallata di Suso, ammantata di boschi e delimitata dalla catena dei Lepini con la maestosa Semprevisa. I nostri occhi corrono al  Ponte della Valle e al Tempio degli Augustales, (30) che sovrasta una necropoli (31) e Asclepio ci racconta di un suo antico ed insigne collega di nome Teoxeno, un sex vir augustales,(32) medico e prefetto di Setia, sepolto proprio in questo luogo in una monumentale tomba. Ancora verso Nord, a lato della via Setina, si apre la grande Valle della Cunnula, la culla di Sezze, sui cui declivi sorgono alcune  imponenti villae di chiaro stile romanico. Due larghi tratturi corrono sulle fiancate, uno sinistra, con diramazione sulla Via Setina conduce al campo inferiore, l'altro a destra verso la parte superiore dell’Antignana, passando a poca distanza dalle sottostanti preistoriche Grotta Jolanda  e Riparo Roberto.

La strada appena imboccata conduce al centro della città con impianto urbanistico del castrum romano (quello medioevale fu costruito sul romano). Le case sono basse e non hanno finestre; qualche abitazione, soprattutto quelle adibite a bottega (taberna), dispongono al piano terra di un soppalco di legno, ma la maggior parte di esse sono degli angusti e malsani monolocali quasi delle baracche, senza servizi igienici, il più delle volte condivisi con animali da corte e qualche pecora. L’ unica fonte di luce è  rappresentata da una minuscola finestrella quadrata ad un lato degli usci. Le vie ed i vicoli (vici) hanno tutti una pavimentazione in selce, sulla quale in prossimità  delle colonnine paracarri, sono visibili due piccoli avvallamenti, uno per lato, che corrono paralleli come binari: sono i segni lasciati nel tempo dal transito delle pesanti ruote dei carri. Ovunque, sulle facciate delle case vi sono panni stesi ad asciugare e  sui muri, di tanto in tanto, notiamo dei disegni rappresentanti  enormi falli umani eretti ed edicole con all’interno gli stessi soggetti in  stucco colorato di rosso. Ciò non deve destare meraviglia, perché  secondo la cultura dei Latini, i peni eretti sono un simbolo di buona fortuna e se ne fabbricano con materiali diversi: alcuni, in bronzo, sono usati come campanelli (tintinnabula) e li vediamo sospesi con piccole catene sulle  porte delle case e delle botteghe, dove è di buon auspicio sfiorarli con la mano per farli suonare ogni volta che vi si transita; altri, pur essi in bronzo, vengono addirittura portati al collo con una catenina, spesso associati ad un altro amuleto bronzeo che raffigura una mano chiusa a pugno, con il pollice infilato tra l’indice e il medio a simboleggiare l’atto sessuale. (33)    Non a caso numerosi esempi di falli votivi sono stati repertati in tutti i luoghi di culto pagano. I corni di avorio o di corallo rosso che conosciamo oggi e che molti usano ancora come portafortuna, nascosti nelle tasche o nelle borsette o  addirittura appesi al collo, non sono nient’altro che una trasformazione, attraverso i secoli, del pene eretto.  Continuiamo il nostro giro in città attraverso le strade ed i vicoli. Ammiriamo diverse officine e numerose botteghe. Queste sono senza vetrine, perché nel periodo il vetro è  troppo costoso e nessuno è in grado di costruirne lastre così grandi, pertanto le facciate delle taberne (botteghe) sono completamente aperte verso la strada, esattamente come accade in molte pescherie e negozi di frutta e verdura moderni.  All’interno, le botteghe alimentari dispongono vicino la porta di un bancone in muratura per l’esposizione delle merci (mensa ponderaria), su cui sono scavati cinque o sei contenitori di forma circolare corrispondenti a unità di peso diverse; più  in là una piccola e ripida scala in legno porta al soppalco, situato proprio sulla testa dei clienti, dove in poco spazio vive e dorme il negoziante con tutta la sua famiglia. Dagli oggetti appesi sulla facciata della taverna e da ciò  che viene esposto in anfore o in cesti, si intuisce il tipo di commercio esercitato: incontriamo il fruttivendolo (pomarius), il commerciante di tessuti (vestiarius), il calzolaio (baxearius), officine per il maniscalco, per la costruzione di carretti e barrozze, per la lavorazione del bronzo e del rame(aerarius), per la fabbricazione di cesti in canna e vimini (manicuti e canistri), ma anche di manufattì in stramma come cestini, impagliature per sedie, gerle per la soma degli asini.   Incontriamo persino un “bar “(popina), ma soprattutto le cauponae (una specie di snack bar),  dove si trova  e si consuma un pò  di tutto: olive, uccelli allo spiedo, pesci in salamoia, pezzi di carne arrosto, frutta, dolci, formaggio, ogni tipo di spezie e l’immancabile garum. Non mancano neanche i venditori ambulanti di ogni genere di prodotto, tra questi numerosi i  pescatori e  granunghiari (34) che espongono davanti le loro case il pescato della palude.  Ci addentriamo in uno dei vici della città che corre in  leggera salita e culmina in una piazzetta. Bisogna stare molto attenti a circolare da soli in questi vicoli quando annotta, perché il rischio di rapina è molto elevato e spesso, per pochissimi sesterzi,(35) sono avvenuti delitti rimasti impuniti.   Dopo aver incontrato alcuni uomini  che facevano la fila  di fronte a un lupanare, riconoscibile dal tipo di lucerna sull’architrave della porta, ci dirigiamo verso il centro,  dove alcuni comodi gradini posti a  lato di una bellissima domus, conducono all’Acropoli, la parte più  alta della città, in cui sorge lo spettacolare e vastissimo Tempio di Ercole il mitico fondatore di Setia(36).  La bellissima domus che abbiamo appena incontrato  appartiene proprio al nostro amico Asclepio; guardandoci attorno ne scorgiamo altre ma quella del nostro amico ci sembra veramente la più bella.  Nel frattempo si è fatta l’ora ottava (37) ed Asclepio, dominus squisito, ci vuole ospiti per la coena (cena); sappiamo da Plinio e Marziale che i banchetti di questi potenti sono abbondanti e lunghi  ma il tempo a nostra disposizione sta per finire; tuttavia cediamo volentieri all'invito di visitare la splendida dimora. 

Dei servi, sicuramente degli schiavi, alla battuta del batacchio aprono il portone e un ampio

Ruderi Tempio di ercole

corridoio (vestibulum)  ci conduce diritti al cortile (hortus), cui fanno da corona delle magnifiche statue di bronzo dei Lari protettori della casa ed un bellissimo pergolato;(38) lo percorriamo per intero ed accediamo subito nell’atrio (atrium), nel cui centro si trova una vasca per la raccolta delle acque piovane, l’impluvium.  Qui due servi ci invitano a sedere e dopo averci sfilato i calzari e lavati i piedi con acqua profumata, siamo pronti ad entrare nella casa a piedi nudi, come vuole la regola. L’atrio è il biglietto da visita del padrone: appesi alle pareti per suo lustro e gloria, ammiriamo i cimeli e i trofei che testimoniano il successo della sua attività; sui tavoli sono elegantemente disposti vari tipi di brocche, ceramiche, anfore, vasi d’oro e di argento, come un’esposizione di tesori. Questo ambiente è appositamente studiato per mostrare agli ospiti non solo le ricchezze ma anche le  parti più importanti della casa: da esso si accede allo studio (tablinum) e alla stanza da letto del padrone (cubicola), ad una angusta cucina (culina) e infine al triclinium (la sala da pranzo), un vero e proprio tempio della convivialità dove i commensali, distesi su comodi letti a tre posti (triclinia) sono soliti consumare i pasti, in particolare la cena. Questo è il piano nobiles della casa ed è riservata al dominus (il padrone) e ai suoi ospiti; da qui una scala in marmo conduce direttamente al primo piano, dove si trovano le stanze delle donne della famiglia, compresa quella della padrona di casa. Anche questa domus è sprovvista di finestre per impedire l’accesso dei ladri, ma la luce ai vari ambienti è garantita da quella proveniente dall’atrio.

Note:

(29) I sacerdoti salii marziali avevano il compito di rivolgere lodi agli dei della guerra e condurre le danze per tutta la città,”cinti le vesti ricamate di cinture di bronzo; portavano sulla sommità del capo berretti conici con la punta in alto, chiamati apici. Essi avevano anche un collegio:chi lo presiedeva era chiamato maestro o capo dei salii, come troviamo presso Dionisio, Plutarco e Sesto Pompeo, il quale aggiunge che nella festa di Marte,vergini saliari, adorne di apici alla maniera dei salii, da questi assoldate, incidevano insieme a loro.” (c.f.r. P.M. Corradini- De civitate, et ecclesia setina )  I salii marziali andavano in corteo per la città battendo tre volte i piedi ad ogni passo, il tripodium, da cui deriva la parola tripudio.

(30)- Termini sepolcrorum ed epigrafi venute alla luce, testimoniano l’esistenza a Sezze dei collegi di sacerdoti augustali. Augusto non permise mai che a Roma si dedicassero edifici al suo culto, ma lo tollerò nelle province. L’Asia e la Bitinia dettero per prime l’esempio,cui seguì tutto l’impero; dovunque vennero eretti tèmpi,istituiti giochi solenni e collegi sacerdotali. “I tèmpi (di Augusto) erano comunemente più grandi di quelli delle altre divinità, giacchè un dio vivente li osservava. Le feste si celebravano in Agosto a cui aveva dato il nome, alle none di febbraio in cui fu nominato padre della patria ed il 23 settembre suo giorno natale.”  Il tempio degli Augustales esisteva dietro la chiesa della Madonna della Pace e precisamente nella parte che fronteggia la nuova via.  ( c.f.r. Lombardini, Storia di Sezze). Nelle vicinanze di questo tèmpio fu rinvenuta un’iscrizione bronzea frantumata, con i nomi dei sex viris augustales che “fu donata da alcuni concittadini che non avevano diritto” al seminario romano. Ciò provoco le ire del Lombardini che asserì che “ i frantumi dovranno rinvenirsi fra i ragnateli di qualche solaio o le muffe di qualche cantina!”

(31)- Quando Pio IX portò l’acqua a Sezze dalla Fonte dell’Oro,  durante gli scavi per la conduttura, in località Croce Vecchia, apparvero avanzi di cadaveri ed una iscrizione frammentaria che ricorda C. Iulius sex vir Augustales letta e ricostruita dal Mommsen (C.I.L.N. 6464). Successivamente, in uno scavo privato, sulla sponda sinistra della Valle della Cunnula, dove erano “resti di mura antiche, furono trovate monete antiche di Giano Bifronte, della Repubblica raffigurata nella trireme e molti avanzi di statue di terra cotta. Apparvero anche resti di ossa umane quasi polverizzate ed un'altra iscrizione frammentaria…. E’ curioso che in un punto, tra le ossa, si trovò la testa di un cavallo insieme all’avanzo di una spada, il che fa ritenere che colà sia stato sepolto o sia caduto in guerra un cavaliere con il proprio cavallo.” (c.f.r. V. Tufo – Storia Antica di Sezze)

(32)- L’iscrizione che ricorda L. Quinctio Teoxeno medico e sex vir aug.(ustales) si trova nell’Antiquarium Comunale di Sezze; su di essa, dopo la sigla AUG. è scolpita in rilievo, la fronte di un tempietto nella quale sono riprodotti tre strumenti chirurgici: un trapano,un bisturi e una pinza. (c. f.r. L. Zaccheo – F. Pasquali, Sezze guida all’antiquario e ai maggiori monumenti- 1970).  

(33)-  c.f.r.  Alberto Angela. – Una giornata nell’antica Roma- Mondadori, 2007.  Queste simbologie sono le stesse che si trovano sui muri delle case negli scavi di Pompei

(34)- Con il termine dialettale “granunghiari” si intendono i pescatori di “ granunghi”, cioè di rane. La canna da pesca aveva come esca una lumaca o una zampetta di rana, ma nel periodo dell’amore venivano usate anche  una o due rane femmine, legate pancia a pancia, alle quali si attaccavano tutti i ranocchi maschi dello stagno.

(35)- I sesterzi sono monete romane.

(36)- Il cardinale Corradini, che alla fine del 1600 ebbe modo di vedere i resti del tempio, lì definì “magnifica rudera” e scrisse che il Tempio di Ercole occupava “quasi la metà della città oggi esistente.”

 (37)- L’ora ottava corrisponde alle ore venti

(38)- La descrizione della domus è fantasiosa, come pure il luogo dove è ubicata, ma ricalca  l’architettura  e la disposizione degli ambienti delle ricche case romane. Le stesse disposizioni le ritroviamo nelle case degli scavi di Pompei

 4 – I cibi

Asclepio è un uomo ricco e potente e il cibo che egli consuma è ben diverso da quello della plebe così come è diverso il modo di consumarlo. I poveri, per mangiare devono arrangiarsi alla meglio e spesso, per mancanza di spazio nelle case, i pasti vengono consumati per strada: un pezzo di pane nero, qualche pesce in salamoia, una cipolla o due olive, accompagnati con acqua o vino di infima qualità. I pasti della giornata di norma sono tre: lo ientaculum o prima colazione, il prandium o pranzo di metà giornata e la coena (cena) consumata verso l’ora ottava in inverno e l’ora nona in estate. I primi due pasti non hanno una vera importanza, spesso l’uno o l’altro vengono saltati o consumati in fretta nei luoghi di lavoro o nelle cauponae  ma la cena, in barba alle teorie dei moderni dietologi rappresenta veramente il pasto principale. I ricchi ne fanno un uso persino smodato: antipasti  leggeri (gustatio o gustus) a base di verdure, olive, ostriche, funghi, porri, accompagnati da vino e miele (mulsum), poi cibi elaborati (ferculum) come “mammelle di scrofa farcite con ricci di mare”, “piedi di cammello con salsa di zafferano ed uova”, “fenicottero con datteri” e ancora  pullus farsilis, lepus madidus, patina piscium, (pollo farcito, lepre in umido, padellata di pesci). Una caratteristica costante del cibo è l’alternarsi del dolce e del salato, sia nel dessert che nelle pietanze con esgerati condimenti, aromi e spezie. Non mancano abbondanti libagioni ai Lari. Il triclinium  è una stanza molto grande, con pareti completamente affrescate da paesaggi agresti  e scene mitologiche. Sui triclinia (letti a tre posti) vengono stesi materassi, coperte e cuscini ed i commensali vi si dispongono a piedi nudi, distesi su un fianco con il gomito sinistro poggiato su un cuscino. Tengono  il piatto con la mano sinistra e usano la destra per portare il cibo alla bocca, mangiandolo direttamente con le mani (l'uso della forchetta è Rinascimentale). I servi, ad ogni cambio di pietanza,si precipitano a lavare le mani ai convitati. Solo in caso di cibi cremosi o liquidi vengono usati cucchiai di varie forme, tra i quali i più comuni sono la ligula  (cucchiaio classico) e la trulla (il mescolo). Segue una secunda mensa, (noi lo avremmo chiamato “dessert”) ma nei grandi banchetti la cena continua  con la commissatio, che consiste in un  generale bevuta di vino basata su regole ferree stabilite di volta in volta, come ad esempio il bere tutto di un fiato tante coppe di vino per quante sono le lettere del proprio nome  (i nomi erano veramente lunghi) e così via sino a notte fonda. Nonostante il vino sia allungato con acqua, spesso si finisce sbronzi. La cena è allietata da piccoli spettacoli, musica, canti e balli. Curioso e triviale è il “bon ton” a tavola: a parte il mangiare con le mani, ogni scarto viene gettato a terra, davanti e sotto o triclini. I rutti, poi, sono sempre attesi dai padroni di casa e costituiscono un segno di sincero apprezzamento delle pietanze; più questi sono numerosi, maggiore è la gratificazione per il dominus (il padrone di casa). Lo stesso dicasi per le flatulenze, che addirittura sono state a un passo dall’essere consentite per... legge, come aveva in animo di fare l’imperatore Claudio, quando apprese che un suo commensale aveva rischiato la vita per essersi “trattenuto” in sua presenza. (39)

Note

(39)- c.f.r.  Alberto Angela -Una giornata nell’antica Roma – Mondadori 2007

5 - Il garum

La cucina dell’antica Roma ha reso famoso il garum in tutti gli angoli del suo impero, ma le origini di  questa salsa sono da ricercarsi nell’antica Grecia. Infatti il termine “garum”è la latinizzazione del  greco ‘γάρον’, un piccolo pesce dalle cui interiora ricavavano la salsa per i condimenti delle loro pietanze. Del suo impiego nell’antica Roma ce ne parla Plinio, Petronio e Marziale ma soprattutto il noto buongustaio Apicio, autore del De Re Coquinaria, citato dagli autori latini come grande amatore di banchetti e di elaborati manicaretti. Il garum, chiamato anche liquamen, è una salsa ottenuta dalla macerazione sotto sale di interiora di pesce, a volte di piccoli pesci interi, con olio, vino, aceto, pepe ed erbe aromatiche, lasciata a riposo per una notte in  recipienti di terracotta e poi esposta al sole per due o tre mesi  con la sola cura di rimescolarla di tanto in tanto per  agevolarne la fermentazione. Quando la parte liquida si  riduce, per via del calore del sole, viene filtrata a mezzo di un cestino (lo scolino di allora); la parte liquida del filtrato è la migliore, cioè il garum,  mentre lo scarto, chiamato allec, è una salsa secondaria di minor pregio. Il garum è un liquido dall’aspetto chiaro e dorato, si conserva bene per lungo tempo in anfore o in vasi di alabastro e viene usato per condire parecchie pietanze,( un po’come accade oggi con il ketchup  o la maionese). Il suo sapore, ai palati moderni, sarebbe sicuramente apparso nauseabondo, ma tale  caratteristica, per certi versi, era riconosciuta anche allora. Marziale infatti, parlando in uno dei suoi epigrammi di un certo Papylus, un individuo repellente per la sua alitosi, dice che anche il più profumato degli unguenti, se l’avesse annusato costui, sarebbe diventato  garum . Platone lo definì “putrido” e Plinio “feccia di cose in putrefazione”. Ancora Marziale, in un altro dei suoi epigrammi, parlando degli effluvi nauseabondi emanati da  Taide (40), rincara la dose, dicendo che costei puzzava più di un pollo che marcisce in un uovo abortivo, di un cane morto e di un anfora viziata da garum corruptus (andato a male). Comunque, come abbiamo detto in premessa, il gusto del buono e del cattivo non è una caratteristica innata dell’uomo ed il garum, se opportunamente dosato in piccole gocce, è l’unico insaporitore conosciuto per i piatti di quest’epoca. C’è da dire inoltre, che al tempo dei Romani, la conservazione delle carni costituiva un grosso problema, di solito veniva salata e spesso  cucinata  al limite della putrefazione. Apicio, in uno dei suoi libri dell’opera citata, ci dice che per mascherarne il cattivo sapore non esisteva rimedio migliore che condirle abbondantemente di garum. L’industria di questa salsa era molto sviluppata in tutto il Mediterraneo, ognuno sfruttava il patrimonio ittico del proprio territorio ed è presumibile che così sia stato anche nella palude pontina,  così ricca di vie d’acqua e di pesci . Era tuttavia opinione comune che i garum più pregiati fossero quelli provenienti dalla Spagna: avevano un prezzo più elevato ed erano importati via mare, con anfore recanti il marchio del produttore e l’anno di produzione.  Eccellente, nella penisola, dovette essere il garum pompeiano, come è stato accertato che fosse nell’Officina degli  Ombricii, tornata alla luce con gli scavi archeologici  di Pompei. 

Note

(40) - Taide è il nome di una meretrice, nota nella letteratura pagana, compare nella commedia Eunuchus del commediografo latino P. Terenzio nel II° secolo a.C.

6 – Il farro

Il farro fu introdotto  dai Romani in tutta la penisola fin dal quinto secolo avanti Cristo, quindi in questo periodo trovò la sua diffusione anche a Setia. Si adatta bene a tutti i terreni, anche in quelli aridi e poveri ed è resistente a quasi tutte le crittogame, ma la sua poca resa e la facilità con cui  i chicchi cadono a terra spontaneamente, prima del raccolto , fece sì che nell’epoca repubblicana, il farro  fosse sostituito dal grano tenero, che nei terreni fertili dell’agro pontino  trovava il suo habitat migliore, con una redditività di gran lunga superiore. Il farro per lungo tempo è stato considerato moneta di scambio e veniva usato persino come offerta nei matrimoni, ( conferatio). La sposa, durante la cerimonia, offriva al marito ed alla sua famiglia un dolce o del pane a base di farro, che veniva consumato prima dagli sposi e poi con tutti i familiari. In questo modo si suggellava non solo il vincolo matrimoniale della coppia, ma anche la solidarietà  e il rispetto tra le rispettive famiglie. Il farro, veniva usato anche come dono propiziatorio alle divinità contadine ( mola salsa) sia sotto forma di chicchi che di farina miscelata con acqua e sale. A Cerere, dea dell’agricoltura, veniva offerto in modo integrale nel periodo della semina (feriae sementivae). I chicchi di farro sono ricoperti da una pellicola molto dura, difficile da togliere per questo motivo nacque l’uso di tostarlo, cioè di abbrustolirlo per liberarlo dalla buccia. Al momento di compiere questa operazione, gli antichi originarono una festa chiamata Fornacalia, dopo la quale si procedeva alla molitura, e con le farine  ottenute ne facevano il puls (polenta) per il consumo quotidiano, ed il libum, la focaccia da offrire agli dei. Un altro motivo per cui  le coltivazioni di farro furono abbandonate è stato per lo scarsissimo contenuto di glutine e per l’ elevato tenore di fibre; proprio per tale caratteristica invece, oggi gode di una rinnovata considerazione, come ingrediente di base per numerose diete alimentari .

 7 -  Il commiato da Asclepio

E’ l’ora nona ed è giunto il momento di accomiatarci. Asclepio, prima di salutarci ci chiede notizie del nostro tempo, in particolare cosa sia rimasto della loro opere. Anche se  aspettavamo questa  domanda, il nostro imbarazzo è stato fortissimo, perché avremmo dovuto parlare dell’incuria degli uomini, ma francamente ce ne è mancato il coraggio. Ci sarebbe tanto piaciuto dire anche che, grazie a quanto di queste opere ci è rimasto, Sezze, richiama numerosi visitatori e se non ci fosse stata l'incuria.....  Anche la sua tomba, preservata dalle offese del tempo, rimane per noi un bene prezioso, al pari della magica denominazione che il popolo ha assegnato al luogo in cui riposa: “La pietra del tesoro”.  

Tornati nel nostro tempo, conosciuto il passato, confidiamo nella realizzazione di un futuro che consegni alle nuove generazioni la storia di Setia, la nostra Storia, da proteggere ed amare.

    OPERE CONSULTATE:

Angela A.- Una giornata nell’antica Roma – Mondadori Editore, 2007.

Bianchini A. - Storia e paleografia della Regione Pontina nell’antichità , Roma, 1939.

Bruckner E. C. - Forum Appii – da  Tra Lazio e Campania, Ricerche di Storia e Topografia antica- Napoli.

Ciammarucone G.  -Descrizione della città di Sezze, colonia latina dei romani , Roma, 1641.

Coarelli  F.   -Atti del convegno “La valle Pontina nell’antichità” Cori 13-14 -1985, Cons. Bibl.M. Lepini.

Corradini P.M.-  De civitate, et ecclesia setina,  Roma ,1702.

Corradini P.M.  -Vetus Latium profanum et sacrum,  Roma, 1705.

Incardona P. – Subiaco P. La palude cancellata, cenni storici sull’agro pontino, Novecento, Latina, 2005.

Lombardini F.  -Storia di Sezze, Velletri ,1909.

Lugli G.  -Ager Pomptinus,  Ed.Unione Accademica Nazionale,1926.

Tufo V.  -Storia Antica di Sezze, Veroli, 1908.   

Venditti V.  -La leggenda medioevale di  Lidano d’Antena, Torino, 1959.

Zaccheo L.  – Pasquali F.  Sezze Guida all’Antiquario e ai maggiori monumenti,  Sezze, 1970.

Zaccheo L.- Pasquali F.  Sezze dalla preistoria all’età romana, Sezze,1972.

Zaccheo L.  Sezze Documenti Epigrafici,  Sezze, 1982.

Zaccheo L.  Pietra Fango Stramma, Sezze ,1996.

Le tavole riprodotte nel testo provengono da P:M. Corradini, De primis antiqui Latii populis.., Romae 1748                                                                                            

 


                                       IL RISCATTO  DELLA  DONNA  DI  SEZZE 

1)-  Cintrutella: donna virtuosa o infingarda ? 

La donna di Sezze non ha goduto di una buona fama nel passato. Il Marocco nella sua opera  “Monumenti e Chiese dello Stato Pontificio” del 1835 ,  dà il giudizio più duro: “ Merita biasimo l’ozio continuo in cui vivono, cosa stomachevole e cattiva, lasciando esse ai loro mariti le dure fatiche della campagna con una particolare indifferenza”.  Gaetano Moroni, nel suo “Dizionario di erudizione storico ecclesiastica” del 1854, riporta gli stessi giudizi del Marocco senza ulteriori approfondimenti.L’Abbate,nella sua “Guida alla Provincia di Roma” del 1894 afferma: “ E’ proverbiale la fecondità, come lo sono il loro ozio e la loro infingardia”.Meno duro il giudizio del Lombardini nella  “Storia di Sezze”: "La donna di Sezze è di belle fattezze, armoniosa, ma tendente all’ozio” Questo verdetto storico, che per secoli ha infangato il ricordo delle nostre nonne, corrisponde a verità, oppure, come è facile pensare, fu inquinato da sentimenti ostili a Sezze?  Probabilmente, gli autori citati si limitarono al “sentito dire” omettendo l’analisi delle condizioni socio- ambientali dell’epoca, analisi peraltro necessaria, per poter reintegrare la donna setina nel giusto ruolo di lavoratrice.I canti popolari dedicati a Cintrutella (1) nome e simbolo della donna di Sezze e le frasi d’amore che i nostri nonni le hanno cantato, Ti voglio guardà schitto per dirti ca su bella” e “Ridammi le carezze se no me moro” non possono essere stati ispirati dall’infingardaggine, nè tanto meno ci possono far ritenere che le nostre nonne siano appartenute ad una specie diversa. Questa cattiva fama della donna setina  sembra che fosse molto diffusa anche nei paesi limitrofi, dove  un antico proverbio, ancora oggi conosciuto, consigliava :“ A Sezze marìtatici ma nun ti ci assorà” (A Sezze fatti il marito ma non la moglie).

Un altro detto che testimonia il diffuso sentimento antisezzese “Figlio, nun te tolle na sezzese ca t’arovina! “ (Figlio,non sposare una sezzese perché sarà la tua rovina), lo ritroviamo nella pianura sottostante, abitata, in seguito alla bonifica integrale e al boom economico degli anni 60, da immigrati del Nord Italia e di Amaseno, Roccasecca dei Volsci, Vallecorsa (2), con il quale si consigliava ai figli di non sposare una setina perché non sarebbe stata la donna giusta per un agricoltore.

Le opinioni non erano diverse anche fra gli abitanti della vicina Conca di Suso; in questa zona, nella prima metà dell’ ‘800 si registrò una folta immigrazione di genti provenienti dal limitrofo Regno di Napoli (3), le cui donne, chiamate in seguito susarole, non persero occasione per raccogliere le accuse di infingardaggine alle sezzesi, le quali però , non rimanendone scalfite, accusarono, a loro volta, le susarole, di ignoranza e rozzezza.

Ma nonna Cintrutella non dovette essere caratterialmente dissimile da tutte le altre donne dell’epoca, forse fu addirittura migliore e, senza dubbio, più bella, come  asseriscono gli stessi autori che  l’hanno diffamata, non valutando opportunamente la realtà socio ambientale che caratterizzava la comunità di Sezze.                     

                                                                             

                                                                  Lucia Del Duca - Foto 1915     Lucia Del Duca - Foto del 1916

2) – Caratteristiche socio ambientali ed economiche di Sezze nel 1800 

Il territorio inferiore di Sezze, la vera risorsa del paese, era per 2/3 paludoso (4); questo ambiente insalubre e malarico, rappresentava un grosso ostacolo agli insediamenti umani, per cui il nostro contadino, a differenza di altre realtà agricole, non abitava la campagna con la famiglia ma, come naturale, preferiva un rifugio più sicuro nel paese, in collina.Quella di abitare i paesi o i borghi era comunque una usanza comune a tutti i contadini del centro sud (5) per ragioni di sicurezza, ma  laddove i luoghi erano malsani, come per la presenza di paludi, questa usanza diventava una vera e propria emergenza.Così, mentre da una parte si tutelava  la propria salute e quella dei familiari, dall’altra  si creavano grosse difficoltà per recarsi al lavoro, perché gli unici mezzi di locomozione erano le proprie gambe,  mentre il cavallo, il mulo o  l’asino rappresentavano un privilegio di pochi. Il territorio di Sezze, inoltre, prima della Bonifica integrale e della istituzione dei  nuovi Comuni nell’Agro Pontino, era enormemente più vasto di come lo conosciamo oggi, pertanto, considerata la grande distanza, al pendolarismo si preferiva, soprattutto d’estate, il pernottamento, tornando in paese soltanto il sabato sera. Il ruolo principale  della donna nella civiltà contadina in generale, era quello di crescere la prole ed accudire le faccende domestiche; la sua presenza nei lavori dei campi, se non dettata da particolari  necessità, si concretizzava negli spazi di tempo che gli impegni domestici le consentivano e in quelle operazioni stagionali di raccolta che, seppure faticose, non richiedevano la forza fisica di altri lavori, come ad esempio cavare fossi con la pala, dissodare il terreno con la vanga, “toccare” l’aratro trainato da buoi ,ecc.A Sezze però, il fatto di non abitare la campagna, non permetteva alle nostre donne di utilizzare gli spazi di tempo da dedicare ai campi, per cui a degli osservatori poco attenti potevano sembrare oziose; a ciò avrà contribuito anche la loro abitudine di sedersi, nei pomeriggi estivi, lungo le strade ed i vicoli del paese. In realtà non era proprio così; infatti, tutti gli orti che si trovavano attorno alla cinta muraria del paese, ormai quasi tutti cementificati, venivano curati essenzialmente dalle donne, che sino agli anni ’50 vi coltivavano broccoletti, farzarape, fagioli, broccoli, misticanze di insalate, fichi, uva, e vi allevavano polli, conigli ecc, per venderli a Piazza d’Erba o per le altre vie principali del paese, spesso anche con servizio a domicilio, come faceva Pappinella, che aveva l’orto sotto Porta di Piano, e che veniva spesso a rifornire la mia famiglia. La cesa (6), o il pezzo di terra da coltivare era un privilegio di poche famiglie, e quindi, per la maggior parte delle donne non esisteva nemmeno la condizione dell’aiuto nelle dure fatiche della campagna, che però non veniva fatto mancare  in tanti altri modi, come per esempio andando a servizio o a fare la bàlia presso le famiglie più agiate, o a fare le fornaie, le cariatòre (7), le sarte, le ricamatrici, ecc.Il lavoro domestico assorbiva le nostre donne molto di più di quanto possiamo immaginare oggi, anche se le esigenze di allora erano molto diverse rispetto ai tempi nostri.

La comodità del rubinetto dell’acqua nelle abitazioni era completamente sconosciuta e, se nelle case dei “camperi” e delle famiglie più ricche si disponeva sempre di una cisterna per la raccolta delle acque piovane, e in qualche caso addirittura di un pozzo  “alla romana”, nelle altre si vivevano condizioni di estrema indigenza e la popolazione si arrangiava come meglio poteva. I bisogni corporali venivano fatti addirittura nelle vie secondarie del paese (durante la notte), come il Caùto e Vicolo della Speranza chiamato dal popolo, sino a metà Novecento, la Cacacciàra.  Spesso l’unica alternativa erano le sorgenti fuori del paese, ed erano le nostre donne che si recavano  a piedi, alla  Fonte  dell’oro o alle Fontane, con il concone o l’arciòla (8)  portati con grande equilibrio sulla testa, protetta dalla coroglia (9). Anche il lavare i panni era un’operazione che richiedeva  tempo, non solo per le distanze dalle fonti, ma anche per attendere il proprio turno.  Un miglioramento delle condizioni di vita si ebbero solo quando Pio IX , nel 1866, portò l’acqua in Piazza De Magistris dalla  Fonte dell’Oro. Accendere la legna per cucinare o solo per scaldare l’acqua a volte era un’impresa da cui si usciva, dopo vari tentativi, con gli occhi rossi e lacrimanti per il fumo, specialmente quando era fresca e stentava ad accendersi.Larte del ricamo e del merletto era molto diffusa e la donna di Sezze, al momento del matrimonio, doveva portare in dote un raffinato corredo di lenzuola, asciugamani, federe, biancheria intima, tovagliati, fazzoletti che andavano da un minimo di 12 pezzi per singolo articolo, sino a 24 o 36 per le benestanti. Le figlie dei campèri (10) arrivavano addirittura a 48.Era naturale che tutto ciò richiedesse un lungo e paziente lavoro di anni, tanto che sin da bambine iniziavano a ricamare per prepararsi il corredo da sposa, con l’aiuto delle mamme e delle nonne. I corredi si preparavano con tessuti di canapa e lino locale; infatti nel nostro territorio si coltivava anche la canapa e il lino (11).

Le piante di canapa raccolte, dopo la macerazione in vasche improvvisate nella palude, venivano portate in paese e alle donne era affidato il compito della scanapolatura, cioè di sfibrarle, sbiancarle e  ricavarne i fili con cui tessere lenzuola, asciugamani, e persino  tonache per  sacerdoti  o confraternite. I tessuti di canapa o di panno, erano resistentissimi, anche se un po’ ruvidi, e parecchie lenzuola e asciugamani  sono arrivati sino a noi, passati in dote da madri in figlie. Uno degli ultimi laboratori per la tessitura della canapa,che qualche anziano ancora ricorda, era quello di  Nèna  Petricca in vicolo Apollo nei pressi della chiesa di S. Lorenzo.

  3) - Il laboratorio di  Nèna Petricca a S. Lorenzo.   

Nèna Petricca, antesignana delle moderne donne imprenditrici, cominciò  sin da bambina a lavorare la canapa e il lino con i fusi nel laboratorio paterno, che più tardi ereditò. Con la sua spiccata imprenditorialità, il  laboratorio, che si trovava a Piazza S. Lorenzo alla confluenza con vicolo Apollo, divenne ben  presto il più grande  di Sezze e l’ultimo di cui resta memoria. I suoi telai  si dice che occupassero un intero grande scantinato; molte ragazze vi si recavano per imparare l’arte ed alcune  sceglievano di restarvi come lavoranti.

Nèna aveva fatto del suo laboratorio una ragione di vita, tanto che decise di non sposarsi e di non avere famiglia. Viveva sola, era una donna esile ma dinamica e coraggiosa e si dice che lavorasse persino di notte per far fronte alle numerose commesse di lenzuola, asciugamani e panni vari, ordinati come dote per le ragazze del paese.  Fu devotissima a S. Orsola, perchè raccontava che  questa santa le appariva spesso in sogno ed una volta le aveva addirittura predetto l’anno e il giorno in cui sarebbe deceduta. Avvicinandosi tale data, tre giorni prima, Nèna cominciò a curare il vestito che desiderava le fosse indossato da morta, estraendolo da una cassapanca di legno massiccio in cui era riposto da anni, e morì esattamente nel giorno e nell’anno indicato, nel 1938 all’età di 80 anni. La notizia della sua scomparsa fece subito il giro del paese e fu lo stupore generale, soprattutto del parroco di S. Lorenzo, Don Alfredo, che ben conosceva in confessione i sogni di Nèna e la predizione di S. Orsola.

 4) – Conserve, tùteri e tutarùgli 

Nella civiltà contadina si doveva fare come le formiche; infatti in estate, quando maturavano i  frutti, si facevano le provviste per l’inverno, ma non sempre le scorte erano sufficienti sino ai nuovi raccolti, come non sempre questi, per colpa delle cattive stagioni, erano buoni, ed allora era veramente la fame. Le nostre nonne lo sapevano bene e non potevano permettere che i propri figli ne soffrissero, per questo era un continuo lavorìo a conservare la maggior quantità possibile di cibo, marmellate, olive, conserve di pomodoro, sottaceti, caciofini sottolio, fichi secchi , sciuscelle  (carrube) ed essiccati come i pesci sottosale delle paludi, etcQuando in Agosto si stutarava, c’erano i tuteri da svagorà, ovvero le pannocchie di mais da sgranare, che gli uomini portavano in paese con i carretti, ed erano ancora le donne a compiere a mano questa opearazione. Il mais fu importantissimo nell’alimentazione umana, e a Sezze la pizza roscia (pizza rossa, fatta con farina di mais) costituiva il cibo di massa, perché il pane bianco fatto con la farina di grano, non tutti potevano permetterselo. I tutarugli (12) venivano usati  “pe abbià  i foco” (13)  nel camino e con i sfògli (14) si facevano materassi e guanciali.. Non erano molto confortevoli ma sembrerebbe che i mal di schiena fossero meno diffusi di oggi. Le piume più tenere degli animali da corte, come degli altri volatili, servivano solo per i materassi e i guanciali di pregioGli indumenti per tutta la famiglia, in lana o in cotone, venivano pazientemente fatti a mano con i ferri ed ogni donna doveva imparare a farlo, soprattutto canottiere, maglie, calzini,calzette, scialli, ecc. I tempi di lavorazione erano lunghi perché per un paio di calzini occorrevano 30 ore di lavoro, mentre per una maglia di lana di taglia media, ne occorrevano 70. Chi era lenta o maldestra a lavorare con i ferri veniva derisa con questa filastrocca: "Ogni tre mìsci (mesi) na soletta, ogni tre àgni nà carzètta" (tre anni per fare una calzetta e tre mesi per i rinforzi del calcagno e della punta del piede).Le famiglie con una decina di figli rientravano nella norma e quelle poco numerose erano l’eccezione, perciò per le donne c’era veramente tanto da fare per portare avanti la famiglia! L’ozio era un lusso che soltanto poche signòre (15) si potevano permettere.    

5) – A San Luca raddùca!

Destituita di ogni fondamento appare  la storiella de gli orto mèio (quando era il momento di vendere i carciofi) e gli orto di marìtimo quando si doveva zapparlo.Nella stagione dei carciofi, la donna per aiutare il marito nella raccolta, si trasferiva con lui in campagna, nella rudimentale capanna di stramma (strame) (16).Durante la raccolta era la donna che ricacciava (17) i carciofi con il canistro (18) sulla testa ed era proprio il marito che le affidava il compito di incassare i soldi al mercato, confidando nella sua oculatezza.Un  trasferimento simile avveniva anche a fine estate, nel periodo della vendemmia, quando non c’era nulla da incassare. Per la fiera di S. Luca ( 18 Ottobre), quando tutti i lavori autunnali in campagna erano ultimati, si ritornava immancabilmente in paese, rispettando il detto e  un’antica tradizione : A San Luca raddùca !(19), anche per spendere parte di quanto faticosamente ricavato.Ricordo negli anni 60 e 70, le mogli dei numerosi coltivatori diretti, molte delle quali ancora viventi, recarsi  con i propri mariti, quasi sempre con una Renault 4 (20), non solo per  la raccolta dei carciofi in primavera, ma anche in altri mesi, soprattutto Agosto e Settembre, durante la campagna dei pomodori destinati allo stabilimento locale della Cirio, che, in quel periodo veniva effettuata interamente a mano. A scanso di ogni interesse ed equivoco, la Cirio e le altre industrie di trasformazione pagavano poco prima di Natale i pomodori conferiti dai produttori.  

6) - ‘Ntina “la giacchetta”: un esempio di donna tenace e laboriosa.  

‘Ntina  “la giacchetta”, al secolo Clementina Tartaglia, nacque a Sezze nel 1866 e morì nel 1956 alla veneranda età di 90 anni. Era sposata con Francesco Di Rosa, meglio conosciuto in paese come Chicco Trambolotto, classe 1860, contadino. Chicco coltivava i carciofi  “alle piaie” (21), in località Rotturno (22), alle cosiddette terre “ llà Sepia”(23), situate nel punto in cui oggi sorgono le case popolari a Sezze Scalo, nelle vicinanze dell’Ufficio Postale.In quei tempi, Chicco,  poteva considerarsi  benestante, perché aveva un mulo con cui effettuare lavori agricoli, anche per conto terzi, e un carretto per trasportare prodotti e spostarsi dal paese alla campagna. La coppia era serena ma non aveva figli, e per questo ‘Ntina, non avendo grossi impegni, spesso e volentieri si recava con il marito in campagna per aiutarlo nei lavori agricoli, non disdegnandone alcuno.  Tante volte però veniva costretta a restare a casa proprio da Chicco, che, ritenendo le donne non adatte ad alcuni lavori pesanti, soleva ripetere  “  ..zappàto da femmina e arratàto da vacca”, cioè il terreno zappato dalle donne  era mal coltivato, come quello arato dalle vacche (e non dai buoi maschi castrati).Era il 1915 e l’Italia entrò in guerra. Chicco, come tanti, fu chiamato a servire la patria in armi.  Il distacco della coppia fu veramente doloroso, forse non si sarebbero mai più rivisti e lui, in considerazione di tale eventualità, era più preoccupato per ‘Ntinta che per sè, tanto che tra un bacio e un abbraccio, con la voce rotta di pianto le consigliò di vendere il mulo e di dare i carciofi “alla metà” (24) a qualche contadino di fiducia, indicandogliene alcuni.‘Ntina  gli rispose di non preoccuparsi per lei, ma di badare  a sé stesso e soprattutto di fare molta attenzione, perché ella non desiderava altro che il suo ritorno, avesse dovuto aspettarlo per tutta la vita.La donna , forte di carattere, non si perse d’animo e non prendendo in considerazione la vendita del mulo, si mise a coltivare i carciofi e il granoturco del marito con l’aiuto saltuario di un cugino. Nottetempo, si alzava alle due, caricava sul mulo alcune sacchette di granella di granoturco che aveva sgranato nei giorni precedenti, e, dal paese si recava al mulino ad acqua della famiglia  Del Duca, vicino la sorgente dell’Acquapuzza, nei pressi di Sermoneta. Al ritorno, in paese trovava sempre qualcuno disponibile ad acquistare la sua farina, richiestissima.Passarono due lunghissimi anni, senza avere più notizie l’uno dell’altro; le comunicazioni con il fronte erano impossibili.La guerra terminò con la vittoria, e Chicco, assegnato dall’esercito a presidio dei ponti nelle retrovie, tornò  felice dalla sua ‘Ntina, sebbene rassegnato a dover ricominciare il suo lavoro tutto daccapo. Indescrivibile la gioia di poter finalmente riabbracciare la moglie, gli sembrava un secolo, ma grande fu la  sorpresa quando ritrovò il  mulo a ruminare la biada dentro la sacchetta appesa al collo, e seppe che il campo dei carciofi  “ alle piaie,”  non solo era stato ben coltivato, ma aveva fruttato, insieme al granoturco, un bel gruzzolo di soldi, che ‘Ntina, aiutata dalla sua tenacia e dalle buone stagioni, era riuscita a mettere da parte, per la felicità di entrambi. 

7) - Conclusioni  

I fatti narrati, rendono giustizia a Cintrutella, donna bella, un po’ ambiziosa, ma non oziosa. Essa è stata raccoglitrice, contadina, operaia, balia, fornaia, venditrice, tessitrice, ricamatrice ma soprattutto madre operosa e amorevole. 

 Note  1) – Cintrutella è il diminutivo dialettale di Geltrude. A Sezze erano diffusissimi i seguenti nomi: Lillo, Peppo (nelle sue varianti di Pappino, Pappinello e Pappineglio), Toto, Ndina, Ndona,  Ndruta (o ancheTuta), corrispondenti in ordine a Lidano, Giuseppe, Salvatore, Valentina, Antonia e Geltrude. Numerose anche le Maria e le Giuseppa , queste ultime chiamate in dialetto Pappinella.

(2)- Attratti da una migliore qualità della vita, con il boom economico  degli anni 60  molti contadini  di Sezze  cambiarono attività e vendettero la loro terra a pastori provenienti soprattutto dalle valli di Amaseno, Roccasecca dei Volsci, Vallecorsa, che qui trovarono terreni  fertili ed irrigui per un’agricoltura più ricca                            

 3)-  La popolazione di Suso provenne nei primi decenni del 1800 dalle zone povere del Frusinate, nel Regno di Napoli, in cerca di migliori condizioni di vita. Queste genti furono in seguito chiamate dai sezzesi susarògli e le loro donne susaròle(

4)– Tufo Vincenzo – Storia  antica di Sezze – Veroli 1908

(5)– Inchiesta agraria Jacini – Atti della Giunta, Vol XI, pag. 120

(6) – La cesa (dal latino coesa, ceduta),  era un pezzo di terra di modesta superficie, ceduta dalle parrocchie o confraternite con contratto di colonia, dietro pagamento di un canone,quasi sempre in natura,  chiamato anche livello, dal latino libellus (libretto), perché il corrispettivo veniva annotato dalla parrocchia  proprio in un libellus.

(7) – Le cariàtore trasportavano sopra la testa, a mezzo di cesti oppure di spase, i prodotti che le si affidavano per il trasporto. Le più note sono quelle che trasportavano i prodotti del forno (fornara cariàtora) o più semplicemente (cariatòra)

(8)- Il concone era un recipiente per l’acqua in rame, a forma di clessidra, con due grandi manici ai lati . Ad esso si associava un mestolo , chiamato scolamarèglio, per prelevare l’acqua. L’arciòla o rocciòla era invece  di coccio, a forma di cuore, ma con base piatta, aveva un becco per  versare l’acqua e due manici laterali per favorire la presa.

(9) – La coròglia  (corolla) era costituita da un panno o anche un indumento, tipo maglietta, che veniva arrotolato  a forma di corolla di un fiore e  posto sulla testa per evitare lesioni e attutire la durezza dei pesi trasportati, come canestri, spase, stagnarole, ecc.Per porli sulla testa, spesso c’era una richiesta di aiuto ad una persona vicino: Aiutame a ‘mpòne!

(10) – Campèri erano coloro che disponevano, a qualsiasi titolo, di estesi campi da lavorare, della conoscenza delle pratiche agrarie e  dei capitali necessari, per condurli e pagare le spese della manodopera.

(11)-  Inchiesta agraria Jacini – op. citata

(12) – I tutarùgli era ciò che restava delle pannocchie di mais dopo averle sfogliate (dagli sfògli) e sgranate.

(13) – Abbià i fòco: espressione dialettale che significa “ avviare il fuoco” o accendere il fuoco. Sfogli e tutarùgli avviano il fuoco meglio della carta

(14) – I sfògli sono la parte fogliosa che protegge la pannocchia di mais. Quando il mais è secco, i sfogli  diventano come la carta.(15) – Le signòre erano le donne borghesi, o nobili e comunque appartenenti alle famiglie più abbienti,( notabili del paese, ed in qualche caso  grossi campèri e bovàri). Erano facilmente distinguibili per strada per  i loro abiti raffinati e completamente diversi da quelli delle popolane. Ci si rivolgeva loro, in segno di rispetto, anteponendo al loro nome  il titolo Sora (romanesco di signora), come ad esempio  Sora Vitruvia, Sora Flavia, ecc. E’ da notare come anche i loro nomi differissero da quelli delle popolane.

(16) – Luigi Zaccheo -  Pietra Fango Stramma -  pag 64 – Ed.  Novecento, 2006

(17) – Ricacciare un prodotto significa portarlo ai limiti di un campo o in altro luogo dove può arrivare e sostare un mezzo di trasporto, per poterlo caricare.(

18) –  Canistro sta per canestro. Era un cesto fatto di canne e vimini e veniva portato comunemente  dalle donne sulla testa, mentre gli uomini lo trasportavano a spalla.  Un canestro “a pieno carico” superava  spesso i 60 Kg .Oggi è rarissimo vedere una donna con un canestro in testa o un uomo portarlo a spalla, non solo per la legge 626 sulla sicurezza del lavoro, ma anche perché non ci sono più persone disposte a farlo.

(19) – Raddùca sta per raddùco (ritorno a casa). Il modo imperativo probabilmente ha lo scopo di forzare la rima con San Luca, ma il detto  tramandatoci è proprio così.

(20) – La R4 era la classica auto dei coltivatori di Sezze, perché oltre ad essere economica e spartana, aveva u n baricentro piuttosto alto che le permetteva di superare agevolmente le asperità dei  stradoni di campagna, ed in più aveva un pianale di carico piuttosto piano e sufficientemente capace (ribaltando i sedili posteriori), che permetteva di caricare e scaricare dal portellone posteriore sacchi di concime o altre cose, senza la difficoltà e lo sforzo di sollevarli dal pianale.

(21) - Le piaie sono terreni alluvionali pietrosi.

(22) - Rotturno è storpiazione dialettale di "Notturno" per via dei venti notturni che spirano nella zona, provenienti da nord est, dalla cosiddetta Valle della Cùnnula. 

 (23) – La Sèpia era probabilmente il nome o soprannome dei proprietari.

(24) -  Dare la terra “alla metà “ significava concedere un appezzamento di terreno ad un contadino o colòno, che si impegnava ad eseguirvi tutti i lavori manuali, dalla semina alla raccolta, dietro corrispettivo, in denaro o in natura, della metà dei prodotti ottenuti dal fondo. L’ampiezza dell’appezzamento doveva essere adeguata alla capacità di manodopera che il contadino e la sua famiglia era in grado di prestarvi.


 Premessa 

Un agricoltore racconta la storia di Sezze, la rivisita e ne modifica e stravolge aspetti che sembravano consolidati?  Si, è proprio così; infatti la storia l’abbiamo fatta noi, analfabeti ed incolti, ma sempre in prima linea, mentre a scriverla sono state le retroguardie blasonate e borghesi, erudite, facoltose e clericali, che guardavano gli avvenimenti secondo un  ottica selettiva e con interessi contrapposti a quelli della povera gente, che non sapeva e non poteva difendersi dalle accuse e, tanto meno, replicare perché non  in grado di leggere e di scrivere.

Proprio come la terra : da una parte esisteva il latifondo con i proprietari  nobili, borghesi o clericali con le loro rendite parassitarie, e dall’altra noi contadini  che alla terra abbiamo profuso le nostre fatiche, abbiamo apportato migliorie  per farla produrre e ricavarne,  non sempre, di che vivere.

Un antico proverbio locale “quando Del Duca ha sete Maratoce sta appicciato”  starebbe a testimoniare le radici agricole della mia famiglia ed il suo radicamento nel territorio di Sezze.

Ho conosciuto questo proverbio quando, poco più che adolescente,  mio padre parlandomene mi confermò la sua esistenza già ai tempi di mio nonno Ndruccio  (antico diminutivo dialettale di Alessandro) classe 1858, che ovviamente non ho conosciuto.

Incuriosito e desideroso di conoscere la storia della mia famiglia, della nostra terra e delle nostre radici cominciai già da allora a raccogliere appunti e notizie su ogni antenato, inquadrandolo nel periodo storico in cui era vissuto. Fui aiutato in questo dalla testimonianza di mio padre e dei miei zii,  ex  campèri  e bovari, proprio come mio nonno ed il mio bisnonno Vincenzo (classe 1830).

Cominciai a frequentare archivi, a prendere appunti,  studiare, verificare storia  ed eventi, il tutto nell’arco di quaranta anni e nei pochi ritagli di tempo che il mio lavoro di imprenditore agricolo mi concedeva. Di grande aiuto mi sono stati alcuni appunti (definire archivio sarebbe un po troppo) anche contabil,i che i miei hanno lasciato nella casa paterna in Via San Carlo a Sezze.

Il fatto sorprendente che da subito mi colpì, fu, come, sin dalla fine del settecento, quando Pio VI bonificò le paludi pontine, a tutto vantaggio del grande latifondo e nulla per i contadini, le  vicende storiche della mia famiglia, si intrecciassero con quelle di Sezze, di cui è stata protagonista non solo per aver dato lavoro a 500 braccianti del luogo, ma anche per averne condiviso le  condizioni di vita, le lotte contadine, le dure fatiche per dissodare e rendere coltivabili terreni altrimenti paludosi, gli usi, i costumi, le tradizioni , le biodiversità, i mezzi di produzione e l’organizzazione di quella che fu la nostra civiltà contadina, una civiltà in cui tutti  affondiamo le radici , che è  parte integrante della storia e della  cultura del nostro popolo e che, proprio per questo, non può e non deve essere dimenticata.